“Vi spiego come è cambiata la Casaleggio Associati”

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 07/08/2017


34 anni, venezuelano di nascita, ex dipendente della Casaleggio Associati ed ora fact-checker indipendente. È una vita interessante quella di David Puente, esperto informatico ed uno fra i primi giovedì sera ad accorgersi del secondo attacco hacker alla piattaforma Rousseau del M5s (raccontato nel dettaglio su Il Foglio), e – ieri – a beppegrillo.it.

Riconosco i dati – ha scritto Puente sul proprio sito – , sono quelli relativi agli account presenti nella piattaforma dei commenti del Blog di Beppe Grillo. Per quanto riguarda il mio posso confermare al 100% e oltre, quella password. Una password estremamente segreta, nonostante la sua semplicità, e mai fornita ad anima viva in nessuna sua forma o alterazione”. E ancora: “Potete continuare a minimizzare il problema, ma è un problema molto grosso”.

Abbiamo chiesto a Puente di spiegarci cosa sta succedendo e, soprattutto, di raccontarci qualcosa sulla Casaleggio Associati.

Il sistema informatico del Movimento 5 Stelle Rousseau è stato attaccato per due volte questa settimana. In cosa le due violazioni si differenziano?

In entrambi i casi si tratta di un accesso al database di Rousseau che ha permesso di entrare in possesso di materiale sensibile. La prima era una violazione “buona“, nel senso che l’hacker in questione era collaborativo nei confronti della Casaleggio. Ha raccontato la falla, non ha rivelato dati sensibili. Il secondo non lo era, al contrario ha diffuso dati personali di alcuni utenti e annunciato ulteriori azioni. Non solo, ha affermato di essere dentro da tempo e di aver “toccato di tutto” ed ha affermato che “è facile giocare con i voti” dei 5 Stelle. È agghiacciante.

Quali possono essere i rischi concreti per gli utenti registrati?

I loro dati sono a rischio. Chissà quanti mal intenzionati conoscevano questa e altre falle di sicurezza e ne hanno fatto uso. Il problema è se i voti all’interno della piattaforma sono stati alterati, sarebbe un danno enorme. L’affidabilità del sistema Rousseau si è dimostrata decisamente bassa.

L’errore più grave della Casaleggio nel gestire gli attacchi?

Per come hanno deciso di trattare l’hacker “buono” (è stata minacciato di denuncia, ndr) sarà difficile che qualcun altro sia disposto a collaborare per loro. Una mossa stupida.

Ma parlaci del tuo passato in azienda, di cosa ti occupavi alla Casaleggio & Associati?

Mi occupavo del blog dell’allora ministro Di Pietro e del partito, l’Italia dei Valori. Ho seguito tutto il progetto fino alla rottura con Casaleggio. Nel 2011, dopo aver seguito altri progetti, me ne sono andato presentando le mie dimissioni.

Perché ti sei licenziato?

Volevo cambiare vita, ma preciso che ero uscito in totale cordialità con Gianroberto Casaleggio, il quale mi disse che se avevo bisogno c’era sempre un posto per me.

In azienda, hai mai incontrato Grillo o altri referenti del Movimento 5 Stelle?

Ho avuto a che fare con Grillo, veniva qualche volta in azienda a salutarci e capitava che prendesse la mia postazione per parlare al telefono mentre io nel frattempo mi prendevo una lunga pausa in attesa che finisse. Con i parlamentari del M5S ho avuto qualche contatto, ora con nessuno di loro.

Quale era il rapporto tra la Casaleggio ed il Movimento?

Da come avevo compreso, l’idea era creare un’alternativa genuina nel panorama politico italiano. La Casaleggio fungeva come una sorta di garante per il Movimento, un “padre” severo ma giusto, per poi lasciarlo camminare da solo. Forse mi sbagliavo.

La Casaleggio è cambiata dal 2011?

Sì, quando lavoravo sull’Italia dei Valori eravamo molto attenti alla reputazione del cliente. Dovevo controllare ogni contenuto e in alcune occasioni ho impedito la pubblicazione di certi argomenti. Ricordo un parlamentare che voleva parlare di scie chimiche e altre teorie complottiste, ma lo bloccai.

C’è chi ritiene la strategia online del Movimento un’innovazione, altri che la vedono come un pericolo per le regole democratiche. Secondo te?

Posso essere sincero?

Certo.

Non mi sembra niente di innovativo. Lo era prima, ora vedo tanta vecchia politica a portata di click.

Tu ora lavori come fact-checker, hai un tuo sito indipendente e sbugiardi le bufale, anche del Movimento 5 Stelle. Come mai questa scelta?

Ho trattato e sbugiardato anche bufale contro di loro. Comunque, noi “debunker” non dovremmo neanche esistere. Lo dico sempre nelle conferenze e negli incontri pubblici che faccio, ci vorrebbe un po’ di sano giornalismo. Quando iniziai, li contattai in diverse occasioni (i 5 Stelle) per correggere alcune cose che pubblicavano, rispondevano volentieri, ma poi qualcosa è cambiato e non ci sentiamo più.

Ultima domanda: riuscirà la Casaleggio a risolvere le falle di sicurezza ma soprattutto a superare l’enorme danno di credibilità?

Me lo auguro! Fossi in loro, bloccherei Rousseau per farlo esaminare e correggere, per garantire agli utenti non solo la tranquillità della gestione dei propri dati, ma anche la segretezza del voto: solo chi aveva creato il portale e il database poteva affermare che fosse garantita, ora potrebbe saperlo anche qualche hacker. Ma per tutto questo ci vogliono soldi.

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Quanto ci costa davvero la “manovrina no tax” di Gentiloni

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 23/06/2017


Ormai conosciuta ai più come “manovrina”, la correzione dei conti pubblici richiesta dalla Commissione Europea al Governo è legge da alcuni giorni. Approvata definitivamente dal Senato, contiene alcuni provvedimenti importanti: i nuovi voucher (di cui Il Foglio si era già occupato), l’abolizione degli studi di settore, la riduzione delle slot machine, i nuovi atti per la ricostruzione, il prestito ponte ad Alitalia e pure la norma anti-Flixbus, per cui, ricordiamolo, è ancora il “giorno della marmotta”.
Ecco dunque il tweet di soddisfazione del presidente Paolo Gentiloni, ormai di rito all’approvazione dei capisaldi legislativi dell’azione di governo:

Passato quasi inosservato, contiene in realtà un’inesattezza di fondo: la manovra correttiva – che vale 3,4 miliardi di euro, come richiesto dalla UE – in realtà aumenta eccome la tassazione. Per raggiungere gli obiettivi di bilancio il governo ha utilizzato un mix di interventi: taglio ai ministeri (460 milioni per il 2017), contrasto all’evasione fiscale con il nuovo ampliato split payment (ovvero l’obbligo per la PA di trattenere nei pagamenti l’ammontare dell’IVA, per poi versarlo direttamente all’erario), e vere e proprie nuove imposte tra cui l’aumento sui tabacchi, sui giochi e sulle locazioni brevi.

Concentriamoci sulle nuove imposte: l’articolo 4 del decreto legge di aprile 2017 – ormai convertito in legge – impone una cedolare secca del 21 per cento sulle locazioni non superiori ai 30 giorni. Si tratta di una norma ad hoc per Airbnb, l’app che gestisce l’incrocio tra domanda per soggiorni brevi in camere e appartamenti. D’ora in poi queste applicazioni dovranno comportarsi da sostituti d’imposta.

L’articolo 5 del decreto prevede nuove accise sui tabacchi per un gettito di 83 milioni nel 2017 e 125 nel 2018. Quindi a tutti gli effetti, nuove tasse. Nell’articolo successivo il governo prevede l’aumento dei prelievi sulle slot machine e sulle vincite (con il raddoppio al 12 per cento per quelle eccedenti i 500 euro). Entrambi i nuovi interventi – per quanto considerati “meno cattivi” perché non toccano beni primari – sono considerati regressivi, poiché colpiranno in particolare le fasce meno abbienti della popolazione: a parità di consumo, lo stesso aumento del prezzo delle sigarette o dell’imposta sulle vincite colpisce maggiormente il consumatore a più basso reddito.

D’altra parte è vero anche che il Governo ha avviato la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, che afferma tuttavia non verranno fatte scattare a fine anno: vengono ridotti e allontanati gli aumenti delle aliquote Iva e delle accise sui carburanti previsti dall’anno prossimo. Insomma, il decreto legge varato dal governo ed alcuni giorni fa convertito dal parlamento contiene nuove imposte per i cittadini per diverse centinaia di milioni di euro. Dunque se Gentiloni afferma che la manovra non contiene “nuove tasse” sbaglia e dimostra un eccessivo ottimismo, una critica che solitamente è stata rivolta al suo predecessore.

I numeri sulla sicurezza di Salvini non tornano

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 13/06/2017


Il tema della sicurezza è stato centrale anche in questa tornata di elezioni amministrative e non è un mistero che a interpretarlo al meglio sia da anni la Lega Nord di Matteo Salvini, che ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. Il segretario del Carroccio, nel corso di uno dei frequenti interventi televisivi al programma “Dalla Vostra Parte”, ha dichiarato: “In Italia viene preso solo il 4 per cento dei ladri e dei rapinatori”, quindi serve “sostenere e valorizzare le forze dell’ordine”.

Davvero in Italia viene arrestato una percentuale così bassa di ladri e rapinatori? I dati Istat ci vengono incontro per fornire una risposta.

L’Istituto nazionale di statistica certifica che nel 2015, ultimo anno disponibile, le segnalazioni di persone denunciate e arrestate per furto sono state 121.719, mentre per quanto riguarda le rapine sono state effettuate 21.615 segnalazioni. Tra i due termini c’è una differenza non indifferente: secondo il diritto italiano, il furto (commesso dal ladro) consiste nella sottrazione fraudolenta di oggetti altrui, mentre la rapina (commessa dal rapinatore) richiede in più anche la presenza di violenza o minaccia. Per questo le pene differiscono: per il furto la pena base è da 6 mesi a 3 anni, mentre per rapina si più ottenere una condanna da 3 a 10 anni.

Non è possibile ricavare la percentuale di ladri e rapinatori che vengono identificati e arrestati, per il semplice motivo che non si conosce il numero di individui che hanno commesso tali delitti e che sono ancora in libertà. Possiamo però confrontare i numeri dei detenuti per furto e rapina con il totale della popolazione carceraria, come fece Pagella Politica per il 2015: per rapina, nel 2016, sono 16.765, mentre quelli per furto raggiungono i 12.191 carcerati. Si tratta delle due categorie più numerose, dopo quella che include i reati legati al traffico di sostanze stupefacenti. Questi numeri ci fanno supporre che il dato del 4 per cento non sia attendibile.

Se invece delle persone ci concentriamo sui reati, secondo l’Istat i casi di cui si conosce l’autore nell’anno di riferimento (2015) sono 67.134 per quanto riguarda i furti e 8.946 per le rapine: cioè rispettivamente il 4,6 e 25,5 per cento, contro una media complessiva del 19. Numeri che possono essere anche confrontati anno per anno: nel 2011, ultimo anno di governo della Lega Nord, tutti e tre questi valori erano minori.

L’uscita dall’Euro potrebbe trasformarsi in un tema tabù per il Carroccio dopo la disfatta lepenista in Francia, mentre la sicurezza diverrebbe sempre più centrale nella narrazione leghista. Narrazione che ha bisogno di solide basi e di proposte concrete per affermarsi, che oggi apparentemente mancano ancora.

Flixbus invita Matteo Renzi: “Venga a fare un giro sui nostri bus”

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 31/05/2017


Il Foglio ha raggiunto Andrea Incondi, trentunenne amministratore delegato di Flixbus Italia, nelle ore immediatamente successive alle dichiarazioni di Matteo Renzi che testimoniano la solidarietà dell’ex premier all’azienda di trasporti e auspicano un intervento politico a difesa dei valori della concorrenza e del libero mercato. La multinazionale tedesca del trasporto su gomma è infatti nuovamente a rischio nel mercato italiano per via un emendamento presentato dal Partito Democratico alla “manovrina”, come ha ricostruito Luciano Capone su Il Foglio.

Sono felice che Matteo Renzi abbia risposto al nostro appello e mi considero soddisfatto della risposta, dalla quale emerge che la posizione di alcuni singoli esponenti del Partito Democratico non coincide assolutamente con la posizione del partito né tanto meno del suo segretario” esordisce Incondi. “Questo ci rende ottimisti sul fatto che questi vincoli vengano eliminati nel più breve tempo possibile, anche perché la posizione di questi singoli contraddice quella del governo, del MIT e del MISE, l’Antritrust, dell’Autorità dei Regolazione dei Trasporti, del TAR del Lazio con le sentenza che sono emerse ieri, degli oltre sessantamila firmatari della petizione per salvare Flixbus e in generale dell’opinione pubblica e della stampa, che hanno legittimato il modello di Flixbus in Italia. Ora auspichiamo che il PD intervenga per rimuovere questi vincoli che colpiscono soprattutto i giovani, ai quali per sua natura e orientamento dovrebbe prestare più attenzione”.

Il manager ora punta in alto e lancia un nuovo appello a Renzi, che invita a toccare con mano la realtà di Flixbus: “mi piacerebbe incontrare Matteo per raccontargli la nostra storia e di come in questo Paese l’innovazione venga osteggiata dalle corporazioni che spesso trovano una sponda politica. Lo vorrei portare su uno dei nostri autobus, fare un viaggio insieme durante il quale gli posso raccontare come è nato il nostro progetto, i ragazzi che ci lavorano dentro, la visione che abbiamo, tutta questa bellezza che sposa benissimo il pensiero che lui ha sull’Europa, sul futuro, sui giovani, sul digitale, sulla mobilità”.

Non manca invece una stoccata a Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio: “innanzitutto l’emendamento attuale non regolamenta affatto il mercato, ma pone solo dei vincoli ad un’azienda. Siamo favorevoli ad un tavolo dove si parli di mercato, essere gli attori del futuro di questo settore, di come renderlo vicino agli utenti finali. Le parole di Boccia sono una mancanza di rispetto a chi lavora al Ministero dei Trasporti e vanno contro una sentenza del Tar del Lazio che proprio ieri ha dato piena legittimità alle nostre autorizzazioni. Abbiamo cercato di metterci in contatto con i protagonisti di questa vicenda politica, senza tuttavia riuscirci” afferma Incondi. L’amministratore delegato respinge anche le critiche di non pagare le tasse in Italia: “Flixbus Italia è un’azienda completamente italiana, che paga le tasse in questo paese come anche i nostri partner. Non siamo certo noi a voler abbandonare il mercato italiano”.

E’ difficile capire per noi chi ci sia dietro a tutto questo. C’è poca trasparenza, anzi opacità. Ci sono emendamenti approvati durante la notte, non alla luce del sole, di cui nessuno vuole prendersi la paternità. Non siamo contro le lobby, perché non abbiamo nulla da nascondere e perché riteniamo che potrebbero apportare informazioni importanti al decisore” incalza Incondi.

In effetti la regolamentazione delle lobby in Italia stenta ancora, come riporta OpenPolis nel suo rapporto. Eppure i gruppi di pressione sono elementi fisiologici in una democrazia rappresentativa: non a caso nei paesi anglosassoni, ma anche nello stesso Europarlamento, non esiste alcuna accezione negativa nella parola “lobbysta”. In Italia invece, in cui questa attività è ancora coperta da scarsa trasparenza, solleva sospetti e zone d’ombra. Negli ultimi anni sono stati compiuti passi in avanti importanti, in particolare dalla Camera dei Deputati che si è fornita di un regolamento che prevede un albo dei lobbysti, spazi appositi, tesserini e sanzioni per chi non rispetta le regole. La Camera è stata seguita anche dal Ministero dello Sviluppo Economico, che a settembre 2016 ha lanciato il proprio portale. In attesa di una legge quadro per garantire la trasparenza dei processi decisionali ed evitare corto circuiti del sistema, come avvenuto per i due emendamenti anti-Flixbus.

I nuovi voucher sono davvero uguali a quelli che il referendum voleva abolire?

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 29/05/2017


Potrebbe essere davvero la volta buona: non quella prospettata da Renzi ormai tre anni fa con tanto di hashtag, bensì per la caduta del governo Gentiloni; e chissà che al segretario del Partito Democratico non dispiaccia nemmeno in questa seconda accezione. È infatti stato approvato sabato l’emendamento del PD alla “manovrina” in discussione alla Commissione Lavoro della Camera, che introduce una nuova regolamentazione per il lavoro occasionale. Un Libretto Famiglia per le persone fisiche e “PrestO”, acronimo di “Prestazione Occasionale”, per le imprese.
È in particolare Movimento Democratico e Progressista, l’area di Bersani e Speranza che si è scissa dal PD, ad agitare le acque della maggioranza. Roberto Speranza ha scritto su Facebook: “La vicenda voucher ha dell’incredibile! Poche settimane fa il governo li ha aboliti, dopo che la CGIL aveva raccolto oltre 1 milione di firme per cancellarli e dopo che era stato indetto il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione. […] Ora la stessa mano che li ha cancellati decide sostanzialmente di ripristinarli, senza neanche cercare la condivisione delle associazioni dei lavoratori. Hanno cambiato il loro nome, ma la precarietà che portano è rimasta la stessa.” Anche Giuseppe Civati, ex PD di più lungo corso, ha twittato tagliente: “Oggi è il giorno previsto per il referendum sui voucher. Il referendum non c’è, in compenso tornano i voucher. Tutto molto costituzionale” fino ad arrivare con un nuovo messaggio successivo ad accusare la maggioranza del più grande “sabotaggio referendario”.

A leggere questi messaggi ci si attenderebbe che il nuovo emendamento presentato dal Partito Democratico non sia altro che una legge-copia-incolla rispetto alla normativa sui voucher abolita definitivamente solo il 20 aprile scorso proprio per evitare il referendum indetto dalla CGIL. Ed invece – come spesso accade nel dibattito politico italiano – la narrazione disegna una verità indotta che poco ha a che fare con la realtà dei fatti. Verificarlo è semplice: è sufficiente confrontare il nuovo testo provvisorio approvato sabato in commissione Lavoro con la precedente normativa sui voucher.

CHI PUO’ UTILIZZARLI?

La platea degli ex voucher comprendeva sia le famiglie e le persone fisiche che le imprese operanti in tutti i settori (al di fuori delle società che appaltano servizi). I loro eredi saranno invece accessibili alle persone fisiche, mediante il Libretto Famiglia – che potranno retribuire esclusivamente piccoli lavori domestici, l’assistenza domiciliare a bambini, anziani e disabili e l’insegnamento privato supplementare – ed alle imprese con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato, grazie a PrestO. È escluso l’utilizzo per le aziende del settore edilizio e minerario e nell’esecuzione di appalti. L’impresa non potrà inoltre retribuire con il nuovo mini-contratto un lavoratore con il quale abbia avuto un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione negli ultimi 6 mesi.

CON QUALI LIMITI?

I voucher ormai aboliti non prevedevano alcun limite economico per i datori di lavoro, mentre i lavoratori non potevano superare i 7000 euro di retribuzione netta per lavoro occasionale nell’arco di un anno ed i 2000 euro da un singolo committente. Le nuove norme prevedono limiti più stringenti: 5000 euro l’anno per i datori di lavoro e per i lavoratori, i quali non potranno però riceverne più della metà dallo stesso committente. È anche previsto il limite orario massimo di 280 ore all’anno per ogni lavoratore occasionale e di quattro ore giornaliere per i lavoratori retribuiti dalle imprese tramite PrestO.

QUALI GARANZIE?

I voucher non prevedevano alcun tipo di garanzia oltre alla copertura Inail per infortuni (70 centesimi ogni buono da 10 euro) e quella previdenziale (1,30 euro a buono); così il voucher partendo da un valore lordo di 10 euro scendeva a 7,50 euro al netto della tassazione. Le nuove misure prevedono invece non meglio specificati riposi giornalieri, pause e risposi settimanali. Sono inoltre garantite coperture per infortuni e previdenziale, per un valore netto di 10 euro (9 per PrestO) dal valore lordo di 12 euro.

COME ACQUISTARLI?

Se i voucher potevano essere acquistati online, in tabaccheria, presso alcune banche ed agli uffici postali, ed erano utilizzabili solo una volta attivati telematicamente con un sms un’ora prima dell’inizio della prestazione, i nuovi funzioneranno differentemente per famiglie ed imprese. Le prime avranno una carta prepagata, ricaricabile sul sito Inps, con cui poter retribuire i prestatori di lavoro occasione; sarà inoltre necessaria la comunicazione telematica dei dettagli della prestazione entro il terzo giorno del mese successivo allo svolgimento della prestazione. Le imprese invece dovranno trasmettere almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione i dettagli della prestazione e le ore lavorate, che non potranno superare le quattro ore a giornata. Se la prestazione non avrà luogo, entro tre giorni il datore sarà obbligato a revocare la dichiarazione. In particolare quest’ultima possibilità viene criticata per la possibilità offerta all’imprenditore di evadere il fisco e pagare il nero il lavoratore nel caso in cui non fossero effettuati controlli nei tre giorni successivi alla prestazione.

QUALI SANZIONI PER CHI SGARRA?

Rimane invece sostanzialmente invariata la normativa sulle sanzioni per chi supera i limiti orari ed economici previsti dalla legge. In tal caso è prevista la trasformazione del rapporto di lavoro occasionale in contratto a tempo indeterminato, con applicazione di ulteriori sanzioni civili ed amministrative.

Già a una prima lettura i due schemi normativi appaiono differenti. I nuovi rapporti di lavoro occasionale assomigliano alle prime versioni dei voucher, prima che venissero liberalizzati quasi completamente da governi sostenuti da centrodestra e centrosinistra. Non si comprende dunque la preoccupazione da parte delle forze più a sinistra della maggioranza. A meno che le motivazioni per staccare la spina al Governo – sotto sotto – non siano altre.

Le bugie del M5s sul reddito di cittadinanza

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 17/05/2017


Se il Movimento 5 Stelle è riuscito ad imporre nel dibattito pubblico nazionale una sua proposta economica questa è certamente il “reddito di cittadinanza”. Depositata da anni in Parlamento, rappresenta la priorità per il movimento fondato da Beppe Grillo, seppur presenti diverse criticità tecniche come sottolineato su Il Foglio da Luciano Capone. Tanto che dal 2015 – per sottolineare la sua valenza francescana– il Movimento organizza una marcia per promuoverlo, di 24 chilometri da Perugia ad Assisi. Marcia che tornerà anche il prossimo 20 maggio: da giorni il Blog sta pubblicizzando l’evento con brevi video come questo, in cui Isabella Adinolfi e Laura Agea – due eurodeputate – affermano: “Da 7 anni l’Europa chiede all’Italia di garantire il reddito di cittadinanza agli italiani che non raggiungono la soglia minima di povertà ma i partiti italiani continuano a ripetere che non si può fare, come se vivessero fuori dal mondo o semplicemente fuori dall’Europa, visto che il reddito di cittadinanza esiste in ben 26 Paesi europei su 28”. Le asserzioni sono tre: 1) il reddito di cittadinanza si applicherebbe solo a chi vive sotto la soglia minima di povertà; 2) l’Unione Europea ha raccomandato all’Italia ed agli altri paesi membri di adottare un reddito di cittadinanza; 3) l’istituto del reddito di cittadinanza è previsto in 26 paesi membri su 28. Verifichiamole una per una.

  1. Un reddito incondizionato garantito a tutti gli individui, senza verifica di requisiti o la richiesta di lavorare”: questo è il reddito di cittadinanza (o reddito di base), come spiega Stefano Toso, professore di scienze delle finanze all’Università di Bologna, nel breve saggio “Reddito di cittadinanza, o reddito minimo?” pubblicato da Il Mulino e recensito su Il Foglio da Andrea Garnero. Per verificarlo basta anche una meno impegnativa visita alla voce su Wikipedia. Ciò che invece il Movimento 5 Stelle chiama reddito di cittadinanza altro non è che un reddito minimo, cioè distribuito successivamente alla prova dei mezzi: prima di tutto una verifica del reddito che non può essere superiore a 600 euro al mese (soglia di povertà relativa dell’Unione Europea per un nucleo famigliare monoreddito), ed inoltre dell’appartenenza alle seguenti categorie: cittadini italiani maggiorenni o stranieri residenti lavoratori in Italia da almeno due anni, e – dai 18 ai 25 anni – il requisito di un diploma superiore. Il reddito minimo proposto dal Movimento propone un’integrazione del reddito famigliare, fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. Il reddito di cittadinanza così inteso dalla comunità scientifica è invece privo di tali condizioni: viene distribuito a tutti, ricchi e poveri, lavoratori e non lavoratori, nella stessa misura. Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle non è dunque un reddito di cittadinanza.
  2. Anche sulle richieste europee le due eurodeputate incorrono nello stesso errore: le istituzioni europee non hanno mai raccomandato l’adozione di un reddito di base agli stati membri, come invece ha più volte affermato il blog di Beppe Grillo nel 2015 e nel 2016 (salvo poi specificare nel testo che in realtà le raccomandazioni sono per un reddito minimo, alimentando ancor più la confusione). Tanto è vero che quando per la prima volta il Parlamento europeo ha avuto la possibilità di prendere in considerazione l’adozione di un reddito di base – all’interno della relazione sulla regolamentazione della robotica di gennaio – la proposta è stata bocciata dalla maggioranza. Il reddito minimo invece viene – questo sì – viene promosso fin dal 1992.
  3. Non è perciò vero nemmeno che il reddito di cittadinanza “esiste in ben 26 paesi europei su 28, come affermano Adinolfi ed Agea: è vero invece che il reddito minimo è diffuso in 26 paesi dell’Unione Europea, a cui presto si potrebbe aggiungere anche l’Italia. Il Parlamento ha infatti approvato una legge delega per introdurre il Reddito di Inclusione, che se andrà a regime in qualche anno potrebbe far recuperare il terreno perso sul contrasto alla povertà. Un provvedimento sul quale – secondo OpenParlamento – otto senatori del Movimento 5 Stelle hanno votato contro, ed i restanti si sono astenuti.

Dopo 804 giorni cosa è rimasto del DDL Concorrenza

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 05/05/2017


Nell’arco di 804 giorni le nostre vite possono essere stravolte: si tratta di un periodo di tempo considerevole. Ancor più lo è in politica, sempre più fluida e repentina. Il disegno di legge Concorrenza è in discussione in Parlamento dal 20 febbraio 2015 – 804 giorni fa, appunto –, quando è stato approvato dal Consiglio dei Ministri. Un’era politica fa: al Ministero dello Sviluppo Economico sedeva ancora Federica Guidi.

Da allora Camera e Senato hanno approvato due volte il testo, ed ora la parola tornerà a Montecitorio. In due passaggi parlamentari gli articoli sono aumentati dai 32 del testo del Governo ai 74 attuali. Proprio questa, assieme ad altre, è una delle motivazioni che allarmano periodicamente economisti ed addetti ai lavori sulla bontà di un provvedimento che si dà l’obiettivo di liberalizzare mercati chiave per l’Italia. L’ultima polemica – rilanciata anche il garante della privacy Antonello Soro – riguarda la liberalizzazione selvaggia del telemarketing, per via dell’eliminazione del requisito del consenso preventivo per le chiamate promozionali prevista nel DDL.

Certo è che in più di due anni di discussione e votazioni le modifiche sono innumerevoli: più di 200 emendamenti sono stati approvati tra Camera e Senato. Sarà riuscito il Parlamento a resistere alle lusinghe di lobby e gruppi di interesse? Come aveva promesso roboante l’allora Presidente del Consiglio, secondo cui questo disegno di legge “incontrerà in Parlamento le resistenze delle lobby, e noi le sfideremo”. Non della stessa opinione Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, che nel dicembre scorso dichiarò: “Sembra che il DDL per la concorrenza si sia trasformato in qualcos’altro e forse questo una riflessione la deve porre”. Ecco dunque, tema per tema, una verifica di cosa è cambiato dalla versione originale, in meglio ed in peggio per i consumatori.

1. RC AUTO

Il mercato delle agenzie assicurative sull’autoveicolo occupa una parte considerevole del disegno di legge governativo, dall’articolo 2 al 14. La prima versione conteneva la possibilità di ottenere sconti dalle agenzie a fronte dell’installazione di scatole nere e misuratori del tasso alcolico sui veicoli e misure, piuttosto generali, per garantire una maggiore correlazione del premio assicurativo con la classe di merito assegnata al cliente assicurato.

Questa prima parte dell’articolato in realtà non ha ricevuto modifiche significative nel corso della discussione in Parlamento. Il cambiamento più importante è la migliore precisazione sugli sconti dovuti dalle compagnie assicurative agli automobilisti virtuosi – chi cioè non causa incidenti da almeno quattro anni – che vivono nelle province in cui la frequenza di incidenti stradali è maggiore. C’è chi si lamenta dell’eccessiva discrezionalità lasciata alle agenzie nella determinazione degli sconti, come Il Fatto Quotidiano: tuttavia una più precisa indicazione avrebbe rischiato di sostituire il mercato nella politica di prezzo. Niente di più anti-concorrenziale.

2. BANCHE

Il DDL prevedeva un motore di ricerca indipendente dei servizi bancari offerti, con particolare riguardo alle carte di pagamento, per consentire un confronto rapido ed imparziale ai clienti. Nulla di significativo è cambiato dalla prima versione.

3. COMUNICAZIONI

Sul settore delle comunicazioni, con gli articoli 16, 17 e 23, il DDL Guidi-Renzi eliminava i vincoli ed imponeva maggiore trasparenza sulle penali per il cambio di gestore telefonico, fisso e mobile, e degli abbonamenti televisivi. Prevedeva inoltre l’eliminazione dei costi eccessivi pert le chiamate ai numeri verde delle società bancarie e di gestione di carte di credito, da parte degli utenti.

Da allora il Parlamento ha introdotto la possibilità di pagare biglietti teatrali e del cinema tramite le Sim dei nostri smartphone e previsto un registro delle opposizioni anche contro l’invio di pubblicità indesiderata tramite posta. Non è mancata tuttavia una polemica per un emendamento approvato che avrebbe introdotto la possibilità di far pagare agli utenti le spese di recesso e trasferimento ad altro operatore, differentemente dal decreto Bersani del 2007 che vietò ogni pagamento per il recesso da un operatore.

4. POSTE

Poste Italiane non avrà più il monopolio dell’invio ai cittadini delle multe e delle notifiche giudiziarie. Questo prevedeva il DDL Concorrenza, prima che la Camera posticipasse il provvedimento al 10 giugno 2017 ed il Senato di ulteriori tre mesi. Si tratta in realtà di semplici accorgimenti tecnici dovuti al ritardo nell’approvazione della legge.

5. FORNITURA DI GAS ED ENERGIA ELETTRICA

Su gas ed energia elettrica il Governo proponeva di ridurre progressivamente, fino all’abolizione definitiva a luglio 2018, il regime di maggior tutela per aprire il mercato dell’energia all’intera platea di consumatori. Il Senato ha successivamente modificato la norma, posticipando la novità a luglio 2019, sul modello di quanto accaduto per il monopolio di Poste.

6. AVVOCATI

Buona parte del disegno di legge di iniziativa governativa trattava di professionisti, in particolare avvocati e notai. Per incentivare la concorrenza nella classe forense, con l’obiettivo di ridurre le parcelle ed eliminare rendite di posizione, si è proposto di abrogare l’obbligo di tenere domicilio professionale presso la sede dell’associazione di avvocati di cui si fa parte e si è aperta la possibilità anche per non iscritti all’albo di entrare nel capitale sociale.  Il governo aveva previsto inoltre l’obbligo di presentare un preventivo della parcella prima dell’avvio della collaborazione e – pezzo forte presentato da Renzi – la possibilità di certificare la compravendita di immobili non ad uso abitativo di valore catastale inferiore ai 100.000 euro davanti ad un avvocato e non più ad un notaio.

Novità tuttavia in parte rientrate nei passaggi parlamentari: gli avvocati non potranno certificare l’acquisto (e le successive azioni giuridiche) per gli immobili non ad uso abitativo e l’ingresso di capitali esterni nelle associazioni forensi non dovrà superare un terzo del totale, garantendo il controllo dei due terzi agli iscritti all’albo degli avvocati.

7. NOTAI

Anche sui notai le novità a favore del mercato e dei consumatori erano molte: erano stati ridefiniti i criteri della distribuzione geografica, allargandoli dall’area di competenze delle Costi d’Appello alle regioni, ed eliminato il reddito minimo di 50.000 euro annuo. Introdotta inoltre la possibilità di aprire una società a responsabilità limitata (Srl) con una semplice scrittura privata, mantenendo tuttavia l’obbligo di registrazione presso il registro delle imprese.

Proprio quest’ultima novità è saltata in Commissione Industria al Senato, su segnalazione della Procura Nazionale Antimafia, preoccupata della tracciabilità degli atti utile contro le attività della criminalità organizzata ed il riciclaggio di denaro.

8. FONDI PENSIONE

L’articolo 15 del primo articolato prevedeva la portabilità completa tra i vari fondi pensionistici complementari e l’impossibilità di deroghe contrarie inserite nei contratti nazionali.

Novità saltata in parte, per la quota del datore di lavoro la cui portabilità continuerà ad essere a discrezione degli accordi sindacali.

9. FARMACIE

Anche sulle farmacie lo sforzo dell’allora Governo era stato deciso: veniva rimosso il limite massimo delle quattro licenze in capo ad un unico soggetto, per consentire benefiche economie di scala. Era inoltre consentito l’ingresso di soci di capitali alla titolarità delle farmacie.

Una misura dimezzata dal Senato che – per evitare distorsioni – ha imposto un tetto regionale del 20 per cento oltre il quale il controllo delle farmacie in mano a società di capitali non potrà spingersi. Non è stato inoltre approvato l’emendamento presentato da Scelta Civica alla Camera per la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, oggi venduti solo nelle strutture farmacistiche.

10. ALTRO

Il Parlamento oltre alla modifica degli articoli scritti dal Governo si è dedicato anche all’introduzione di alcune novità: prima fra tutte l’abolizione del parity rate, vale a dire la possibilità per gli alberghi di offrire tariffe più basse rispetto a quelle proposte da Booking.com e altri intermediari online, un tema caro anche alla Commissione Europea. È stata inoltre inserita una delega legislativa di dodici mesi entro i quali il Governo è chiamato a riordinare il tema scottante delle norme sugli autoservizi pubblici non di linea, quindi Ncc ed Uber.

Secondo Salvatore Tomaselli, sentito da Il Foglio in quanto relatore del testo, “non ci sono stati condizionamenti impropri da parte di associazioni di categoria e lobby. Abbiamo ascoltato tutti nelle audizioni in Commissione, alla luce del sole.” Attribuisce invece i ritardi nell’approvazione del testo alla politica, in particolare ai “cambi di ministri ed alle scadenze elettorali”. È la politica che deve essere in grado di fare sintesi fra posizioni ed interessi contrapposti, – afferma Tomaselli – ed in questo senso il percorso del DDL Concorrenza è stato faticoso”. E cosa ancora manca nel DDL? “Se devo indicare due temi su cui ho auspicato che si possa fare di più e sui quali credo che il dibattito sia maturo al giorno d’oggi sono la regolamentazione delle lobby e la regolamentazione della sharing economy”. Alla Camera l’onere di approvare in fretta il disegno di legge, per non avere – dopo il governo – anche la legge dai “mille giorni”.

Flixbus è salva

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 25/04/2017


Flixbus è salva: il governo ha ufficializzato la decisione di stralciare la norma inserita nel Milleproroghe che, se confermata, avrebbe estromesso l’azienda dal mercato italiano dei trasporti. Nelle concitate ore immediatamente precedenti alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri dell’undici aprile scorso, Il Foglio ha raggiunto Andrea Incondi, managing director di Flixbus Italia.

Da quando siamo sbarcati sul mercato italiano abbiamo permesso ad oltre tre milioni e mezzo di passeggeri di viaggiare ad un prezzo sostenibile, collegando oltre cento città di zone anche remote e non raggiunte dalla mobilità tradizionale” ricorda il manager. Non solo: “il nostro modello aziendale ha permesso a cinquanta aziende italiane di inserirsi nell’altrimenti inarrivabile mercato della media e lunga percorrenza, popolato da colossi del low cost come Italo e Ryanair”. Tutto ciò è reso possibile dall’innovativa piattaforma di e-commerce offerta da Flixbus alle aziende che decidono di affiliarsi – perlopiù piccoli e medi operatori del settore. Gli standard da garantire per entrare a far parte del circuito sono piuttosto elevati, sia dal punto di vista della sicurezza che del comfort: i bus devono essere dotati di wifi, prese elettriche, sedili reclinabili e avvolgenti, in caso di tratte notturne. Flixbus si occupa della brandizzazione dei mezzi, svolge approfondite analisi di mercato e, soprattutto, stabilisce i prezzi basandosi sul principio domanda/offerta. Tutte caratteristiche assai gradite agli utenti ma che evidentemente hanno fatto storcere il naso a qualche competitor.

Incondi ne fa una questione di principio: “non solo l’emendamento al Milleproroghe è chiaramente un provvedimento contra aziendam ma lede il principio di libera concorrenza e dimostra come in questo Paese l’attrattività per gli investitori sia un valore che rischia di essere messo in discussione letteralmente in qualsiasi momento”. Incondi racconta della fatica incontrata per spiegare alla casa madre quanto accaduto in Parlamento: “erano semplicemente increduli. Abbiamo dovuto spiegar loro che solo in Italia, tra i venti paesi in cui operiamo, si entra in un mercato con regole chiare e ben definite, e basta un semplice blitz dell’ultimo minuto per mettere in discussione un intero modello di business”. “La concorrenza” spiega Incondi “spinge il mercato verso l’innovazione e il miglioramento, non dovrebbe essere qualcosa da temere”.

È quello che, con altre parole, hanno affermato sia l’Antitrust che l’Autorità di Regolazione dei Trasporti. Il primo, per bocca del suo presidente Giovanni Pitruzzella, ha chiesto al Parlamento di eliminare l’emendamento definendolo «una norma che impedisce a un operatore particolarmente dinamico e competitivo lo svolgimento della propria attività», e riconoscendo come «la diffusione di piattaforme e l’ingresso nel mercato italiano di nuovi operatori nazionali e stranieri hanno delineato un contesto competitivo molto vivace e sfidante».

L’ART, competente per la regolazione dei trasporti e delle infrastrutture, il quattro aprile scorso ha trasmesso al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti un parere nel quale chiede di favorire l’offerta di nuovi servizi nel trasporto di linea su autobus a media e lunga percorrenza, affermando che «il mercato si è ampliato con l’ingresso di operatori connotati da una struttura aziendale innovativa. Al contempo l’entrata dei nuovi attori ha indotto i principali incumbent ad innovare il loro modello di business». L’ART sottolinea inoltre che «la disposizione contenuta nel c.d. “Decreto Milleproroghe”, che limita ad alcune specifiche forme di associazione temporanea d’impresa le aggregazioni alle quali è consentito richiedere l’autorizzazione a svolgere trasporto di linea, costituisce un vincolo nell’accesso al mercato per gli operatori – che fino ad oggi hanno operato associati, in forma diversa rispetto a quanto previsto dalla nuova norma introdotta col “Decreto Milleproroghe” – a danno di un’offerta di servizi adeguata alle esigenze di mobilità degli utenti».

La petizione lanciata su Change.org dal magazine Strade per salvare Flixbus aveva già raccolto oltre sessantamila firme tra cui quelle di Oscar Giannino, Pierluigi Battista e Alberto Mingardi. Ma soprattutto decine di migliaia di semplici cittadini convinti che garantire la libera concorrenza sia un bene per la collettività. Per questo Incondi oggi parla del salvataggio di Flixbus non come “la vittoria di uno, ma di tutti: di tutte le aziende che lavorano ogni giorno al nostro fianco; della concorrenza, grazie a cui gli italiani continueranno a poter decidere come viaggiare; di chiunque voglia scegliere di investire in Italia, perché si è finalmente dato un segnale sulla certezza delle leggi”.

Articolo scritto assieme ad Antonio Grizzuti

Dove va la Francia? I programmi di Le Pen e Macron a confronto

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 24/04/2017


Il primo turno delle elezioni francesi ha emesso il verdetto: saranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen a sfidarsi nel ballottaggio del prossimo 7 maggio in cui verrà scelto il nuovo presidente della Repubblica francese. Candidati all’opposto su tutta la linea e che si rivolgono ad elettorati assai diversi. Naturalmente anche i programmi elettorali mostrano differenze sostanziali: se Le Pen propone di uscire dall’Euro, Macron è il competitor più europeista della storia politica francese recente; se il leader di En Marche! non ritiene l’immigrazione tra le cause del terrorismo francese, Marine pensa di “fermare l’immigrazione legale ed illegale” in particolare dai paesi musulmani.

Nei prossimi paragrafi troverete un breve confronto tra i due sui temi della sicurezza, dell’Europa e politica estera, sulle politiche economiche e sull’ambiente. Le fonti principali sono i programmi elettorali – più compatto ma approfondito quello di Macron, più ampio ma meno dettagliato per Le Pen – e gli aggiornamenti di Francesco Maselli, giovane giornalista italiano che da alcuni mesi segue le elezioni presidenziali francesi con una newsletter settimanale gratuita.

SICUREZZA E IMMIGRAZIONE

La Francia è stata sconvolta, negli ultimi anni, dal terrorismo di matrice islamista ed anche per questo il tema della sicurezza è uno fra i più sentiti dall’elettorato.

Marine Le Pen può contare sulla piattaforma programmatica più solida: prevede l’abbandono di Schengen per ristabilire le frontiere nazionali e la punizione per indegnità nazionale per quei cittadini francesi radicalizzati tenuti sotto sorveglianza. Le Pen, se eletta, intende anche “mettere in pratica un piano di disarmo delle banlieu e rimettere sotto controllo le zone far west“, riferendosi ovviamente alle periferie delle grandi città francesi in gran parte abitate da cittadini di religione musulmana. Per riuscirci è disposta a colpire la criminalità minorile bloccando i sussidi sociali alle famiglie con minori recidivi ed aumentare di 40.000 posti la capienza carceraria. Come è noto, la leader del Front National propone la linea dura sull’immigrazione: espatrio dei criminali stranieri attraverso accordi bilaterali, stop alla naturalizzazione degli stranieri entrati illegalmente in Francia ed allo ius soli e riduzione dell’immigrazione legale a 10.000 stranieri all’anno (ma oggi la Francia ne accoglie più di 220 mila all’anno). Non solo: secondo LesEchos Le Pen sosterebbe anche un “periodo di attesa” di due anni durante il quale agli immigrati regolari non verrebbero rimborsate alcune spese sanitarie. Queste ultime proposte si scontrerebbero con il principio di libertà di movimento dei cittadini europei sancito dai trattati ma ciò non deve stupire, d’altra parte la destra francese si dice pronta a stracciare le regole comunitarie.

Anche Emmanuel Macron propone di aumentare la dotazione delle carceri francesi per 15.000 nuovi posti di cui una parte dedicata a centri penitenziari esclusivi per i foreign fighters. Il candidato liberale intende inoltre aumentare l’organico delle forze di polizia di 10.000 unità e la spesa per la sicurezza, in particolare a sostegno della cybersecurity. Ma non solo: a sorpresa nelle ultime settimane ha proposto un servizio militare obbligatorio mensile per tutti i giovani, sul modello di quanto proposto in Italia dalla Lega di Matteo Salvini. Non compaiono invece nel programma provvedimenti forti sull’immigrazione, se non la creazione di una guardia transfrontaliera europea per la salvaguardia delle frontiere esterne dell’Unione, sul modello di Frontex. A ben vedere, il candidato che si definisce “né di destra, né di sinistra” non è riuscito a legare le proposte ad una narrazione efficace, come invece ha fatto Le Pen accomunando il rischio per la sicurezza ed il terrorismo islamista ad uno dei suoi temi più cari: l’immigrazione.

ECONOMIA, LAVORO E WELFARE

Il candidato di En Marche! può invece contare su una piattaforma programmatica più organica su economia, welfare e lavoro, partorita – come ha raccontato Leonardo Martinelli su Pagina99 – da un gruppo di 400 esperti guidati dall’ex ministro socialista dell’Economia Jean Pisani-Ferry. Secondo lavoce.info Macronsi prefigge di porre le basi per un nuovo modello di crescita, giusta e sostenibile (anche dal punto di vista macroeconomico) perché ecologica e al servizio della mobilità sociale”. Il giovane outsider, seppur criticando l’austerità di bilancio imposta da Bruxelles durante la crisi, indica come obiettivo il rispetto del limite del 3% di deficit nel rapporto con il PIL (nel 2016, secondo la Commissione Europea, ancora al 3,3%). In parallelo il politico di Amiens propone un imponente piano di investimenti pubblici per 50 miliardi in 5 anni allo scopo di sostenere la transizione digitale ed ecologica del paese. Per coprire la nuova spesa in conto capitale prevede di ridurre la spesa pubblica per ben 60 miliardi entro un quinquennio, grazie a maggiore efficienza della pubblica amministrazione, il mancato rinnovamento di 120.000 dipendenti pubblici e l’aumento occupazionale che dovrebbe permettere di ridurre la spesa per gli ammortizzatori sociali. Proprio dalla carenza di previsioni dettagliate nascono le critiche dell’economista francese Thomas Porcher, che ha denunciato con 14 tweet le “zone d’ombra” del programma economico di En Marche! Programma in cui compare per di più la riduzione della pressione fiscale, di cui beneficeranno le imprese grazie alla riduzione della tassazione sui profitti, i lavoratori per via di una riduzione del cuneo fiscale a beneficio della fascia più debole della popolazione, ed i proprietari di casa con l’abolizione della tassa sugli immobili per l’80% dei proprietari. Per il mercato del lavoro la strategia dell’ex ministro dell’Economia è chiara: aumentare il potere contrattuale dei lavoratori non a scapito dell’imprenditore, ma estendo le salvaguardie di welfare in caso di disoccupazione e di carriera discontinua. Vuole quindi ampliare i beneficiari del salario universale di disoccupazione anche ai lavoratori autonomi e a coloro che si licenziano e favorire il lavoro stabile rendendo meno convenienti i contratti precari, con l’introduzione contestuale di una certa flessibilità sulle tutele dei lavoratori – in particolare sul limite delle 35 ore settimanali – favorendo la contrattazione a livello aziendale. Non manca infine un passaggio sulle pensioni: Macron prevede il mantenimento dell’età pensionabile a 62 anni, rafforzando tuttavia il principio di “un euro di contributi, un euro di pensione” anche per quelle categorie che godono di regimi pensionistici speciali. D’altra parte è previsto l’aumento delle pensioni minime di 100 euro, nel tentativo di ingraziarsi parte dell’elettorato più anziano che gli preferisce ancora il repubblicano Fillon.

Marine Le Pen porta avanti il patriottismo economico e la sua battaglia per l’abbandono del libero commercio, condizione, secondo la candidata, per un processo di reindustrializzazione ordinato. Per questo propone un “protezionismo intelligente” – termine ideato dal suo consigliere economico Jean Messiha, ex alto funzionario al ministero della Difesa – per imporre barriere doganali a difesa dei settori strategici e contro beni importati da grandi gruppi francesi che hanno delocalizzato la produzione all’estero. In particolare LesEchos scrive di un dazio doganale del 3% su gran parte delle importazioni (che porterebbe a un gettito di circa 15 miliardi l’anno), ma non su tutte: “non ha senso – ha dichiarato Marine Le Pen – un’imposta su tutti i prodotti di tutti i paesi. Non tasseremo ad esempio il caffè, dal momento che la Francia non ne produce, e non c’è motivo di tassare alcuni paesi dell’Unione Europea. Tasseremo invece chi fa dumping sociale e fiscale”. Proposte che certamente le hanno attirato il favore della classe operaia francese, nella quale Marine Le Pen ottiene ben il 43% dei consensi secondo l’analisi di Salvatore Borghese su YouTrend. Trova quindi posto nel programma l’abbandono dell’Euro attraverso un referendum popolare ed il finanziamento del debito pubblico da parte della banca centrale francese (il che tuttavia, secondo buona parte degli economisti, porterebbe ad un’iperinflazione ed a un forte aumento dei tassi di interesse), oltre all’istituzione di un’Autorità di Sicurezza Economica che limiti gli investimenti stranieri rischiosi per l’interesse nazionale. Non a caso nel corso del primo dibattito televisivo Le Pen ha portato a modello l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, per ottenere “risultati formidabili”. Sul lato del welfare per la leader del FN l’età pensionabile è troppo alta: sarà ridotta, nel caso di vittoria, da 62 a 60 anni oppure a 40 anni di contributi (mentre la legge in vigore prevede un aumento a 43 anni entro il 2035, per un risparmio sulla spesa pensionistica di circa 16 miliardi di euro). Non potrebbe mancare l’abolizione della Loi Travail, la contestatissima riforma del lavoro approvata dal governo socialista solo l’anno scorso, mentre verrebbero mantenute le 35 ore lavorative settimanali. Il Front National propone inoltre la riduzione della tassazione sul reddito del 10% e la defiscalizzazione per due anni delle assunzioni di giovani fino a 21 anni, tagliando perciò fuori i giovani laureati che – non a caso – premiano col 30% l’avversario Macron. In totale, secondo Challenges, l’azione redistributiva proposta dal FN verrebbe a costare allo stato francese 85 miliardi di euro, una somma ancora più monstre rispetto al piano di investimenti di Macron. Anche in questo caso le coperture di bilancio languono, per di più dopo l’impegno di Marine sul contenimento del deficit al 3% entro il 2019 ed al 1,3 per il 2022: per riuscirci prevede una crescita dell’economia al ritmo di 2% l’anno, un gettito di 20 miliardi dai nuovi dazi, circa 40 miliardi di minori spese per la riduzione dei sussidi di disoccupazione ed il risparmio dei 19 miliardi versati ogni anno dalla Francia al bilancio dell’Unione Europea. Vale quanto scritto per Macron: enormi nuovi spese che difficilmente verranno coperte con le coperture annunciate, troppo ottimistiche.

EUROPA E POLITICA ESTERA

Le due opposte ideologie si scontrano anche sull’Europa e moneta unica. Il programma di Le Pen, almeno a parole, è semplice: fuori dall’Eurozona, dall’Unione Europea e pure dalla Nato (in cui la Francia è rientrata solo nel 2009). La candidata della Destra a Lione davanti ai suoi sostenitori ha affermato di voler aprire un confronto di sei mesi con Bruxelles, per ottenere maggiore autonomia e sovranità; nel caso la trattativa non dovesse andare a buon fine Le Pen indirebbe un referendum popolare sulla “Frexit”. Per la candidata della periferia parigina l’Europa è il nemico numero uno: non è un caso che venga citata un’unica volta fra i suoi 144 punti programmatici, ma solo per prenderne le distanze e rivendicare la sovranità politica ed economica della Francia. È interessante tuttavia notare come le proposte di politica fiscale siano ancora calcolate in euro: evidentemente la leader nazionalista non può permettersi di mostrare al proprio elettorato la perdita di potere d’acquisto che porterebbe la svalutazione del nuovo franco per le fasce meno abbienti.

Al contrario Emmanuel Macron fa dell’Europa uno dei pilastri fondamentali del suo programma, definito il più europeista mai presentato in Francia da un candidato alla presidenza. Nel suo programma indica la via per uscire dal “decennio perduto” per il continente europeo, fornendo soluzioni comunitarie ai problemi che segnano la Francia. Intende perciò costituire una sovranità europea: per questo propone un grande dibattito comunitario che coinvolga l’intero continente, al termine del quale ogni paese consegnerà una proposta di analisi dei problemi più sentiti e le soluzioni individuate dai cittadini per risolverli. Con lo stesso obiettivo immagina di destinare i 73 seggi a Strasburgo riservati fino ad oggi alla Gran Bretagna ad un’elezione europea, e non più paese per paese, con liste votate in tutta Europa. Sul lato più economico, il leader di En Marche! porta avanti due cambiamenti istituzionali per rilanciare la capacità di intervento dell’Unione: un bilancio dell’Eurozona ed un super-ministero delle finanze che guidi le politiche dell’unione monetaria nel sostegno all’industria, nella difesa del mercato unico, nel supporto alla transizione digitale ed ecologica. Globalizzazione sì, ma non selvaggia. Macron promette infatti la lotta alla concorrenza fiscale al ribasso in favore delle multinazionali e di concedere l’accesso al mercato unico solo alle imprese che detengono almeno la metà della produzione sul territorio europeo. L’orizzonte comune è fondamentale per affrontare anche il tema della difesa: proprio in Francia, che bocciò la Comunità europea di Difesa nel 1954, potrebbe prevalere il suo programma fortemente favorevole all’integrazione degli organi militari. A partire dalla costituzione di un fondo europeo di sicurezza per finanziare un esercito comune, di un quartier generale permanente ed un consiglio di sicurezza europeo che riunisca i responsabili militari dei 27 paesi.

AMBIENTE

Emmanuel Macron ha dichiarato che l’ecologismo è una delle tre gambe su cui poggia il suo movimento, assieme alla cultura socialdemocratica e quella liberale. L’ambizione del giovane candidato è rendere la Francia un leader mondiale nella ricerca in materia di transizione ecologica: intende quindi rispettare i trattati di Parigi, eliminando le centrali a carbone entro cinque anni e impedendo lo sfruttamento di nuove fonti energetiche da idrocarburi. Di contro prevede di raddoppiare la potenza ricavata da fonti rinnovabili in un quinquennio, anche grazie al piano di investimento da 50 miliardi di euro. Macron ha inoltre dichiarato guerra ai pesticidi e vuole promuovere l’acquisto di automobili a basse emissioni grazie ad un bonus all’acquisto di 1000 euro.

Sull’ambiente Marine Le Pen si allontana in modo netto dall’alleato americano Donald Trump, giunto fino a negare l’evidenza del cambiamento climatico. Ciò nonostante la presidente del Front National non fa riferimento ai trattati di Parigi della Cop21 volendo svincolare la Francia da ogni accordo che possa mettere in dubbio la sovranità nazionale. Sul banco degli imputati c’è ancora la globalizzazione colpevole dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali, come sostenuto dal suo stretto consigliere Philippe Murer. È in particolare grazie alle sue parole convincenti se Le Pen, una volta eletta, abbandonerà progressivamente le energie fossili al di fuori del nucleare (anche se l’energia fotovoltaica è osteggiata dalla candidata per via dell’impatto estetico). Ma non solo: sui temi ambientali il protezionismo economico che caratterizza l’intero impianto programmatico diviene autarchia alimentare ed agricola, meglio se bio. Il programma cita inoltre la protezione delle zone di interesse ambientale, la difesa degli animali – in particolare delle api – ed il divieto assoluto degli OGM.

Articolo scritto assieme ad Andrea Silvagni

Sulla crescita italiana Renzi questa volta la spara grossa

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO L’11/04/2017


La campagna per le primarie del Partito Democratico è ormai entrata nel vivo (mancano poco più di due settimane all’appuntamento con i gazebo fissato per il 30 aprile) e – come in ogni campagna elettorale che si rispetti – bufale ed informazioni scorrette cominciano già a diffondersi. Chi questa volta la spara grossa è Matteo Renzi. Proprio lui che, da Presidente del Consiglio, ed ancor più oggi attraverso l’app per smartphone appena lanciata non perde occasione per annunciare campagne contro le bufale diffuse, in particolare, dal Movimento 5 Stelle.

Ebbene, l’ex premier, ospite di Porta a Porta, ha dichiarato: “Non è vero che la crescita è lenta: la crescita è passata dal -2 per cento al +1. Nessun paese nello stesso periodo ha fatto un balzo così grande. Nessuno ha avuto un tasso di miglioramento come l’Italia. Perché siamo partiti dal -2 mentre gli altri erano al +1. […] Siamo cresciuti +1 per cento all’anno, da meno due a più uno in tre anni sono tre punti”. Parole che hanno fatto sobbalzare Antonio Polito, vicedirettore del Corriere della Sera, il quale tuttavia non ha saputo replicare lasciando gli spettatori privi degli strumenti per verificare la realtà dei fatti.

Per iniziare, accertiamo il trend delle variazioni annuali del prodotto interno lordo italiano, dal 2013 al 2016, comparato alla crescita media dell’Eurozona. È vero – come afferma Renzi, decimale più, decimale meno – che il nostro Paese è passato da una variazione annuale negativa del -1,7 per cento nel 2013 ad una positiva dello 0,9 l’anno scorso.

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L’Italia non è tuttavia lo stato – presumiamo europeo – che è cresciuto di più nei quattro anni presi in considerazione, né il paese membro che ha visto i propri tassi di crescita migliorare in modo più netto. Fermo restando che il metodo di calcolo della crescita dell’ex premier non è corretto: Renzi sembra contare la crescita italiana pluriennale a partire dalle percentuali di variazione annuale, ma non c’è niente di più scorretto dal punto di vista statistico. Le percentuali si riferiscono a totali differenti, e non possono quindi essere comparate individuando lo scarto fra loro.

Per Eurostat, il Pil italiano è cresciuto dal 2013 al 2016, in termini reali (cioè a prezzi costanti fissati al 2010), dell’1,78 per cento; non del 3 per cento totale e non dell’1 per cento annuo come sostenuto dall’ex Presidente. La crescita media dell’Eurozona è stata superiore al 5 per cento, in Germania del 5,26, in Spagna dell’8, in Francia del 3,13: è perciò facilmente comprensibile la fallacia dell’argomentazione. Prendiamo ora in considerazione invece lo scarto tra le variazioni annuali del prodotto interno lordo; poiché sono progressivamente crescenti in quasi tutta Europa potrebbero essere un ulteriore indicatore del percorso di crescita di un paese. Ebbene, sempre secondo Eurostat e prendendo in considerazione solo i paesi che nel 2013 si trovavano in recessione, la Spagna ha fatto meglio di noi, partendo dallo stesso livello (-1,7) è cresciuta fino al 3,2 per cento nel 2016, il Portogallo dal -1,1 ad una crescita di un punto e mezzo percentuale, la Slovenia dal -1,1 al 2,5 e perfino il piccolo Cipro è passato dal -6 per cento ad una crescita del 2,8. Come è comprensibile dai dati, queste variazioni sono davvero poco indicative nel confronto tra paesi membri: ma pur accettando il criterio la dichiarazione dell’ex premier rimane inesatta.