ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 10/08/2017
IL VIDEO
In questo agosto afoso a molti capita di perdere le staffe: non è certo insolito per Vittorio Sgarbi, che ha reso le sue sfuriate in diretta tv ormai immortali. Sempre più il critico d’arte affida ai social network le proprie filippiche, come accaduto sabato scorso sul suo profilo facebook quando Sgarbi se l’è presa contro l’Istat (attenzione, nel video viene utilizzato linguaggio volgare).
Sgarbi nel video afferma che “una delle piaghe del nostro tempo è la disoccupazione” ma mette in dubbio le statistiche fornite da Istat sulla disoccupazione giovanile: “Dobbiamo credere a queste statistiche […] quando ci danno il 34% dei disoccupati tra i giovani? Naturalmente la fascia dei giovani è delimitata in un arco tra i 15 e i 24 anni. È chiaro che se prendi quel periodo, molti giovani che studiano sono disoccupati […], ma cosa dovrebbero fare?!”. E poi aggiunge: “Da ragazzi è giusto studiare, è bene studiare. Più si studia, più si troverà lavoro”. “Allora perché l’Istat dice disoccupati nella fascia giovanile dai 15 ai 24? […] Fino a 20 sono anni in cui altro deve fare, prepararsi a lavorare. […] Se dobbiamo pensare che qualcuno debba studiare e lavorare siamo di fronte a uno Stato figlio di dio minore, uno Stato in cui uno deve pagare gli studi per forza. […] Un giovane di 18 anni non è disoccupato! È occupato in altre cose, che sono quelle cose che se farà bene lo porteranno a portare un buon lavoro. Quindi non credete troppo a queste statistiche, perché tendono a drammatizzare una situazione, o forse qualcuno di voi a 15 anni si sente disoccupato?”
Parrebbe una boutade di metà agosto, se non fosse che il video ha ricevuto fino ad ora più di 470mila visualizzazioni. Peraltro alcuni commenti (di cui oscuriamo gli autori perché non oggetto di fact-checking) non sono meno confusi:
Figura 1
OCCUPATI, DISOCCUPATI, INATTIVI: COSA SIGNIFICA?
In realtà le domande polemiche dell’opinionista sono frutto di un malinteso di fondo, piuttosto comune: chi non lavora non rientra per forza tra i disoccupati. Secondo il glossario di Istat (pagina 7 dell’ultima rilevazione mensile) la forza lavoro è la somma di occupati e disoccupati; questi ultimi sono invece coloro che – tra i 15 ed i 74 anni – non essendo occupati, hanno effettuato “almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento” e sono disponibili “a lavorare le due settimane successive”; oppure, che inizieranno “un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbe disponibile a lavorare entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro”. Sulla base di questa definizione si calcola dunque il tasso di disoccupazione (disoccupati/forza lavoro).
Tutti coloro che non rientrano in questa categoria possono essere occupati, cioè coloro che nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro – retribuita o gratuitamente, se in azienda famigliare – o sono assenti dal lavoro (per ferie o malattia), oppure inattivi: chi non lavora e non è alla ricerca di un’occupazione, quindi – ad esempio – gli studenti. Rispettivamente, sono calcolati il tasso di occupazione (occupati/forza lavoro) ed il tasso di inattività (inattivi/popolazione di riferimento).
Riassumendo:
TERMINE | DEFINIZIONE |
Occupato | Chi lavora almeno un’ora alla settimana. |
Disoccupato | Chi cerca lavoro ed è disponibile a lavorare, mentre nel frattempo non ha un’occupazione. |
Inattivo | Chi non cerca lavoro e/o non è disposto a lavorare |
Forza lavoro | La somma di persone occupate e quelle disoccupate (sono esclusi dunque gli inattivi). |
Perciò gli studenti non rientrano nella categoria della disoccupazione come pare credere Sgarbi, al di fuori di chi tra gli studenti-lavoratori è alla ricerca di un’occupazione. Dunque se è vero che il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a giugno si attesta al 35,4 per cento, ciò non significa che il restante 64,6 per cento abbia lavorato né tanto meno che in quel 35,4 rientrino gli studenti (sarebbe altrimenti un dato drammaticamente basso).
I DATI (QUELLI VERI)
Sempre Istat certifica i seguenti dati sulla fascia più giovane, per il mese di giugno 2017:
Figura 2
Fonte: Bollettino sul mercato del lavoro in giugno 2017 – Istat
Il tasso di occupazione ed il tasso di inattività (in cui rientrano gli studenti) misurano rispettivamente sulla forza lavoro quanti giovani hanno un lavoro e quanti invece non cercano un’occupazione, secondo i criteri spiegati in precedenza. L’incidenza dei disoccupati sulla popolazione – 9,1 per cento – calcola invece quanti sono effettivamente i giovani disoccupati sul totale della popolazione tra i 15 ed i 24 anni (occupati + disoccupati + inattivi, che a differenza della forza lavoro ora vengono presi in considerazione), riportando così una percentuale considerevolmente minore. Una cifra divisa per un divisore più grande porta a un risultato più piccolo (9,1 vs 35,4).
Il fatto che tra i giovani gli studenti rientrano nella categoria degli inattivi è osservabile anche a partire dai dati sul resto della popolazione: se infatti il tasso di inattività 15-24 anni è al 74,4 per cento, tra i 25 e i 34 anni si attesta al 26,3 per cento e tra i 35-49 anni addirittura al 19,7. Proprio perché al crescere dell’età anagrafica, il numero di studenti diminuisce.
GLI “SCORAGGIATI”
Il 74,4 per cento dei giovani inattivi può inoltre essere ulteriormente scomposto tra chi non cerca un lavoro perché non interessato (ad esempio, gli studenti non lavoratori) e gli “scoraggiati”, cioè coloro che sarebbero disposti a lavorare ma per le difficoltà nel trovare un’occupazione hanno ormai smesso di cercarla. Per calcolarli viene utilizzato il tasso di mancata partecipazione, che al numeratore comprende, oltre ai disoccupati, anche quanti non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a lavorare (gli “scoraggiati”, appunto), e al denominatore insieme a questi ultimi anche le forze di lavoro (occupati + disoccupati). Secondo Istat il tasso di mancata partecipazione ha raggiunto il 51,5 per cento nel primo trimestre del 2017, livello più basso rispetto ai trimestri precedenti.
IL VERDETTO
Dunque no: Istat non rileva tra i disoccupati gli studenti non lavoratori, ma segue semplicemente standard affermati a livello internazionale (ecco perché l’analisi parte dai 15 anni, mentre l’età dell’obbligo in Italia è di 16). I dati pubblicati dall’istituto di statistica sono corretti, una volta che si presti attenzione alle definizioni che peraltro sono riportate nelle note esplicative.
Mai ci azzarderemmo a verificare una dichiarazione di Sgarbi in campo artistico, ma è chiaro che la statistica non è proprio il suo campo. Visto il personaggio e la gravità dell’errore, riteniamo che al classico giudizio di veridicità secondo le nostre regole di ingaggio questa volta sia preferibile un modo migliore per manifestare il verdetto. Non possiamo infatti che sfruttare il vasto repertorio prodotto negli anni dallo stesso Sgarbi.
Ecco come facciamo il fact-checking.
Fact-checking: più incendi senza i forestali?
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 02/08/2017
AGGIORNAMENTO (11/08/2017)
Come promesso nel fact-checking, giovedì 3 agosto abbiamo inviato la richiesta di accesso civico (in inglese, FOIA) al Ministero dell’Interno per ottenere le informazioni sulle quali gli uffici stampa non avevano fornito risposte. Nella giornata di oggi – dopo soli 8 giorni – abbiamo ricevuto il responso, che conferma le informazioni dell’articolo. Tre le domande: 1) quanti operatori D.O.S. sono oggi operativi nel Corpo dei Vigili del fuoco? 2) quanti mezzi aerei trasferiti dall’ex Corpo forestale al Corpo dei Vigili del fuoco sono oggi funzionanti? 3) quali regioni hanno firmato accordi di programma con i Vigili del fuoco per l’utilizzo dei loro mezzi e personale?
Ecco le risposte:
- “Attualmente il numero di personale con qualifica di Direttore delle Operazioni di Spegnimento (D.O.S.) operativo […] è di circa 750 unità”;
- “I mezzi aerei transitati dall’Ex Corpo Forestale dello Stato al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco sono n. 16 elicotteri di cui n. 8, al momento, sono in assetto operativo, fermo restando i fermi tecnici, brevi, derivanti dai cicli ordinari di manutenzione previsti. I restanti mezzi (n. 8) risultano interessati da manutenzione calendariali ed al momento non sono disponibili per l’operatività”;
- “In funzione dello svolgimento delle attività operative in materia AIB, sono state stipulate specifiche convenzioni con 15 regioni […]”.
In particolare i punti 1 e 3 rafforzano le tesi riportate nel fact-checking, riguardo alla diminuzione rispetto al 2016 del personale D.O.S. operativo (1.056 vs circa 750) ed al colpevole ritardo delle regioni nella firma delle convenzione con i Vigili del fuoco. Le date di sottoscrizione, assieme all’importo previsto, sono infatti consultabili nell’allegato in basso inviatoci dal Ministero dell’Interno; da tenere a mente la data di inizio della campagna nazionale anti-incendi: 15 giugno 2017. Alcune date differiscono di pochi giorni da quelle riportate da Legambiente e citate nel fact-checking (in particolare per Puglia e Sardegna); ci scusiamo con i lettori per l’imprecisione.
ESTATE, LA STAGIONE DEGLI INCENDI
Ogni estate non c’è questione più “scottante” di quella degli incendi boschivi che imperversano nella nostra Penisola. Tema che quest’anno è risultato inesorabilmente legato alla recente riforma delle forze di polizia e, in particolare, allo smembramento del Corpo forestale dello stato (CFs). Nelle ultime settimane diverse testate giornalistiche hanno riportato numerose critiche alla riforma, spesso citando fonti sindacali. Certo, voci ben informate e competenti sulle questioni più tecniche, ma non sempre imparziali e attendibili. Ecco dunque la necessità del fact-checking, a partire dalla dichiarazione su Twitter del sottosegretario al ministero della Semplificazione e Pubblica amministrazione Angelo Rughetti:
INCENDI CURCIO DPC “DA 10 A 17/7 325 RICHIESTE INTERVENTO 50% SEMESTRE PRECEDENTE” ACCORPAMENTO #FORESTALE NON C’ENTRA NULLA STOP POLEMICHE
— Angelo Rughetti (@AngeloRughetti) 19 luglio 2017
Rughetti riporta alcuni dati del capo del dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, sulle richieste di intervento aereo ricevute dalle regioni per incendi boschivi.
Secondo il sottosegretario parrebbe dunque che l’aumento degli incendi boschivi, spiegato nella scheda illustrativa, non sia in alcun modo legato allo smembramento del Corpo forestale: ogni nesso di causalità andrebbe escluso. La dichiarazione è rilevante poiché il ministero della Pubblica amministrazione è competente per la riforma voluta dal governo Renzi e concretizzatasi con il decreto legislativo 177/2016. Parole che richiedono perciò una verifica, a partire da documenti e dati ufficiali.
IL PERSONALE DOS
Il punto di partenza è intuitivo: quanti uomini erano a disposizione per le attività anti-incendio boschivo nel 2016 e quanti nel 2017? Si tratta di un calcolo complicato, poiché non vi è trasparenza su quanti dei quasi 8mila forestali statali fossero effettivamente impiegati nelle attività anti-incendio.
Possiamo tuttavia recuperare informazioni sui direttori delle operazioni di spegnimento (Dos), vale a dire l’importante figura che negli incendi boschivi particolarmente complessi coordina le operazioni e in particolare dirige i mezzi aerei presenti. Tale personale, appositamente formato, fino al 2016 era a disposizione degli enti locali e dell’ex Cfs (secondo la legge quadro sugli incendi boschivi 353/2000); dopo il 31 dicembre – ultimo giorno di operatività dei forestali – la competenza dei Dos è passata al corpo dei Vigili del fuoco, che la esercitano in collaborazione con le regioni. Secondo i decreti del Corpo Forestale dello Stato di attuazione del decreto legislativo 177/2016, tra i forestali erano 1.056 gli operatori forniti di competenza Dos. Se aggiungiamo – come scrive l’ufficio stampa del ministero dell’Interno, sollecitato direttamente – che “le unità di personale [nel corpo dei Vigili del fuoco, ndr] addette alla funzione di Direttore delle operazioni di spegnimento sono ad oggi 800” capiamo bene come, oltre a disperdere competenze acquisite negli anni, ci sia stato un ammanco di alcune centinaia di uomini e donne con esperienza e formazione nel coordinamento dello spegnimento degli incendi. Per di più i Dos dei VVf sono stati formati unicamente per la gestione dell’intervento aereo, mentre mancano della formazione necessaria alla gestione globale dell’incendio, oltre a non conoscere il territorio forestale rurale come invece l’ex personale del Corpo Forestale dello Stato.
IL MISTERO DEL DECRETO MANCANTE
I problemi non terminano qui: secondo l’articolo 13 del decreto legislativo 177/2016 il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf) avrebbe dovuto, entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore (cioè entro il 12 novembre 2016), individuare “le risorse finanziarie, i beni immobili in uso ascritti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato, gli strumenti, i mezzi, gli animali, gli apparati, le infrastrutture e ogni altra pertinenza del Corpo forestale dello Stato che sono trasferiti all’Arma dei carabinieri, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, alla Polizia di Stato e al Corpo della guardia di finanza”. Il decreto manca ancora all’appello, per voce dello stesso generale Antonio Ricciardi, a capo del corpo forestale dei Carabinieri ove sono confluiti più di 6mila ex forestali: in audizione in Senato ha infatti affermato che si tratta di un “decreto interministeriale ancora non definitivo ma di fatto già attuato”. Non abbiamo notizie su come un decreto non ancora emanato possa essere attuato, peraltro né l’ufficio stampa del Mipaaf, né quelli del ministero dell’Interno o del ministero della Pubblica amministrazione hanno voluto rilasciare commenti in merito.
DOVE E’ LA FLOTTA AEREA
Molti degli articoli di giornale pubblicati nelle scorse settimane si sono concentrati sulla flotta aerea a disposizione dell’ex Cfs: 32 elicotteri, tra cui molti anti-incendi, spartiti a metà tra Carabinieri e VVf. Secondo le numerose denunce riportate, però, gli elicotteri sarebbero in gran parte fermi negli hangar. Mancanza di fondi, lavori di manutenzione straordinaria, complicazioni burocratiche: le ragioni sarebbero tante. Si tratta di una questione talmente tecnica e mutevole che siamo stati costretti a non addentrarci nei dettagli, per evitare facili imprecisioni. Per capirne la complessità basta l’esempio delle affermazioni del governatore della Sicilia Rosario Crocetta: durante un’audizione al Senato qualche giorno fa ha dichiarato che gli elicotteri appartenenti all’ex Corpo Forestale in funzione nella sua regione nel 2016 non possono ancora essere utilizzati dalla direzione siciliana dei VVf per problemi legati al passaggio dal vecchio al nuovo corpo. Le dichiarazioni di Crocetta sono contraddistinte da alcune imprecisioni e per di più smentite in precedenza, per il contesto nazionale, da un comunicato del Ministero dell’Interno. Tuttavia la direzione regionale siciliana dei Vigili del fuoco, che fa capo al Dipartimento nazionale e quindi allo stesso ministero dell’Interno, ha confermato in modo esplicito le parole del governatore spiegando che è stato impossibile firmare la convenzione tra VVf e regione Sicilia per l’utilizzo dei mezzi aerei anti-incendio dei VVF proprio per via di tale ritardo. Come accaduto in Sicilia, immaginiamo che ritardi per l’utilizzo dei mezzi aerei anti-incendi dovuti allo smembramento del CFs possano essere avvenuti anche in altre regioni italiane.
LE RESPONSABILITA’ DELLE REGIONI
Ciò tuttavia non significa certo che – come sostengono alcuni – il considerevole aumento del numero di incendi e del territorio bruciato sia dovuto al solo smembramento del Corpo forestale. Le regioni appaiono avere un gran fetta di responsabilità, per via del loro ruolo cruciale, come spieghiamo nella scheda. Dovrebbero adottare e successivamente aggiornare annualmente un piano regionale per la programmazione delle attività anti-incendio. Inoltre per loro è possibile stipulare convenzioni annuali a pagamento con il corpo dei Vigili del fuoco (in passato anche con l’ex Cfs) per l’impiego del personale e dei mezzi terrestri e aerei a disposizione. Secondo il dossier Legambiente, che appare una valida fonte, questa è la situazione delle sei regioni più colpite dagli incendi boschivi:
REGIONE | DATA DI APPROVAZIONE DEL PIANO REGIONALE | DATA DI FIRMA DELLA CONVENZIONE CON I VVF | ETTARI BRUCIATI (percentuale sul territorio regionale coperto da foreste e boschi) |
Sicilia | 10 maggio | 1 agosto (prevista) | 7,41% |
Campania | 21 luglio | 15 luglio | 2,92% |
Sardegna | 23 maggio | / | 0,28% |
Puglia | 24 febbraio | 30 maggio | 1,7% |
Lazio | 17 luglio | Giugno | 0,8% |
Calabria | 12 giugno | 4 luglio | 3,14% |
Fonte: “Dossier Incendi 2017” di Legambiente ed elaborazione dati del progetto Copernicus della Commissione europea, aggiornati al 27 luglio 2017.
In rosso sono segnate le date in cui alcune regioni che hanno approvato piani e convenzioni: come si vede sono in estrema prossimità o addirittura in ritardo rispetto all’inizio della campagna nazionale anti-incendio, inaugurata il 15 giugno.
IL VERDETTO
Recuperare le informazioni per questo fact–checking, tra gli uffici stampa dei ministeri e del Dipartimento nazionale dei VVf, muti per settimane, non è stato semplice. Per ottenere alcune interessanti informazioni che ancora mancano all’appello tenteremo la via della richiesta di accesso agli atti (in inglese, FOIA): uno strumento peraltro fortemente voluto dallo stesso ministero della Pubblica amministrazione, che però sull’argomento incendi resta da giorni silente di fronte alle numerose richieste di informazioni.
Ad ogni modo non è certo possibile, né nostra intenzione, dimostrare una causalità diretta tra i ritardi e disguidi e il fenomeno degli incendi boschivi delle ultime settimane: le variabili in campo sono troppe. Allo stesso tempo, non appare possibile escludere categoricamente ogni problema, come ha fatto il sottosegretario Rughetti. Alla luce dei fatti, la sua dichiarazione è quindi FALSA. A problemi complessi non si possono fornire risposte semplicistiche, per di più se affidate al cinguettio dei 140 caratteri.
Angelo Rughetti su Twitter in risposta al fact-checking (assieme alla nostra replica). Il Sottosegretario ha ribattuto in modo più approfondito sul suo profilo Facebook:
Grazie della risposta! Ecco la nostra replica, per punti. Qui trova il nostro codice di condotta sul fact-checking: https://t.co/HkfxNQ0OXZ pic.twitter.com/SW0XCKQv4M
— lavoce.info (@lavoceinfo) 14 agosto 2017
Quando Berlusconi parla di poveri
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 25/07/2017
POVERTA’ AL CENTRO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE
Il contrasto alla povertà sarà un tema centrale per la prossima campagna elettorale: non vi è leader politico che non ricordi il dramma dei milioni di famiglie che si trovano in questa situazione e suggerisca varie proposte per migliorarne la condizione.
Anche il centro-destra, in Italia storicamente più avverso a politiche pubbliche assistenzialiste, ha elaborato una piattaforma anti-povertà.
Nella serata del 21 luglio Silvio Berlusconi a In Onda su La7 ha affermato (dal minuto 35:00):
“Capisco tuttavia che quei 15 milioni, ora 15 milioni e 170mila, di italiani che purtroppo sono poveri e sono 4 milioni 770 mila che sono nella povertà assoluta – non introitano niente, vivono quindi dell’assistenza dello Stato e della carità privata – e quei 10 milioni e 400 mila che sono nella cosiddetta povertà relativa perché introitano mensilmente meno di quello che l’Istat dice essere il livello di dignità che per esempio per una famiglia di padre, madre e due figli l’Istat indica in 1.155€, che quindi queste persone che vedono una proposta dei Cinque Stelle, quella del cosiddetto reddito di cittadinanza, cioè di dare a loro – alla prima e alla seconda categoria – partendo da 0 un reddito completo, votino i Cinque Stelle anche solo per questo. Allora bisogna dire che questo fatto non è possibile, perché i conti che molti hanno fatto indicano una cifra di 130 miliardi che il bilancio italiano non potrebbe sopportare. Noi, al contrario, abbiamo trovato modo di proporre un reddito, che abbiamo chiamato di dignità, che significhi concedere ad ogni famiglia che sia al di sotto del reddito di dignità la differenza tra il reddito che effettivamente entra in famiglia mensilmente e quella soglia del reddito di dignità”.
QUANTI SONO I POVERI
La dichiarazione di Berlusconi è lunga e complessa e quindi va analizzata punto per punto.
L’ex premier affronta il tema del contrasto alla povertà indicando il numero di residenti in Italia che si trovano in tale condizione: 15 milioni 170mila secondo il leader di Forza Italia. Leggendo con attenzione il report prodotto annualmente da Istat sulla povertà il numero non si trova, ma se ne comprende l’origine: Berlusconi somma infatti poveri assoluti – 4 milioni 742mila – e poveri relativi – 8 milioni 465mila (li sovrastima in 10 milioni e 400mila e non ne comprendiamo il motivo).
Non vi è tuttavia alcuna evidenza che i due insiemi siano completamente separati e non presentino aree di sovrapposizione; secondo il chiarimento fornito dall’Istituto nazionale di statistica, direttamente sollecitato: “È presumibile che ci sia un’ampia area di intersezione tra l’insieme dei poveri assoluti e quello dei poveri relativi (nel senso che i primi dovrebbe trovarsi anche nella condizione dei secondi e non viceversa), ma rimane una considerazione presumibile e non è stimabile. Questo perché le metodologie con la quale vengono individuati i due insiemi sono molto diverse tra di loro”.
Se infatti la povertà assoluta è misurata sulla base di una soglia di spesa per consumi che si ritiene necessaria per vivere in modo dignitoso, aggiornata ogni anno per tenere conto dell’andamento dell’inflazione, della ripartizione geografica, della tipologia familiare, in povertà relativa sono invece le famiglie che si trovano al di sotto di una certa soglia riferita all’intero territorio nazionale, tenuto conto di un’opportuna scala di equivalenza per determinare la soglia se le famiglie hanno un numero di componenti diverso da due (maggiori dettagli si possono leggere nel glossario del report Istat, a pagina 17).
Berlusconi sbaglia dunque anche la definizione di povertà assoluta, ritenendo che si tratti della condizione per cui il reddito è nullo e chi ne fa parte “non introita nulla”. Per rientrare nella povertà assoluta è sufficiente spendere in consumi una somma inferiore a determinate soglie, prendendo dunque in considerazione il consumo e non il reddito: per questo rientra nella categoria anche chi riceve un reddito basso, non necessariamente nullo. Tutte le soglie sono riportate nel prospetto 8 del report Istat, a pagina 7.
Anche per quanto riguarda la soglia di 1.155 euro che Berlusconi definisce “livello di dignità” per una famiglia composta da quattro persone (2 genitori e 2 figli) nel documento dell’Istat non si trovano riferimenti. Secondo la scala di equivalenza dell’Istituto a pagina 17 (riportata parzialmente in tabella) una famiglia di quattro componenti per essere considerata povera in senso relativo deve avere una spesa per consumi inferiore a 1.730 euro al mese. Certo non crediamo che i numeri del leader di Forza Italia siano completamente inventati, ma non si trova alcuna evidenza nella fonte che lo stesso Berlusconi cita.
Fonte: “La povertà in Italia – 2016”, Istat
BERLUSCONI CONTRO IL REDDITO DI CITTADINANZA
Il fondatore di Fininvest, chiudendo il cerchio della sua riflessione, critica la proposta del Movimento 5 Stelle, il reddito di cittadinanza. In proposito cita il falso dato per cui per finanziarlo sarebbero necessari 130 miliardi di euro: ce ne eravamo già occupati in un precedente fact-checking, le stime sul costo della proposta del Movimento si attestano tra i 14,9 miliardi (per Istat nel 2015) e i 30 miliardi (per Inps). Berlusconi avanza poi la sua proposta: il reddito di dignità, per “concedere a ogni famiglia che si trovi sotto [della soglia] […] la differenza tra il reddito che effettivamente entra in famiglia mensilmente e quella soglia del reddito di dignità”. Probabilmente non ne è consapevole, ma si tratta sostanzialmente del meccanismo del reddito di cittadinanza proposto dai Cinque Stelle, che Berlusconi ha tanto criticato.
IL VERDETTO
Durante la puntata, l’ex cavaliere si è compiaciuto che Matteo Salvini gli abbia attribuito la qualità di “genio” nel calcio, negli affari e nella politica. Qualifica che evidentemente non gli appartiene per la lettura dei dati Istat. Per via delle numerose imprecisioni rilevate, la dichiarazione di Silvio Berlusconi è almeno PARZIALMENTE FALSA. Soprattutto, però, è fuorviante nei confronti di quegli elettori particolarmente sensibili sul tema della povertà, per di più se coinvolti personalmente. La povertà è un argomento troppo delicato per riportare – in diretta Tv – imprecisioni, se non bufale.
Ma davvero il Ceta è pericoloso come dice Salvini?
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 07/07/2017
LE PAROLE DI SALVINI SUL CETA
La discussione sugli accordi commerciali non passa mai di moda nell’era del neoprotezionismo. Con l’avvento di Donald Trump è stato ufficialmente messo in soffitta l’accordo simbolo della “globalizzazione”, il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea. Sconfitto il “nemico” numero uno della democrazia e delle piccole medie imprese europee, l’attenzione delle forze nazionaliste si concentra sul nemico numero due: il Ceta (Comprehensive and economic trade agreement), il fratello in salsa euro-canadese del Ttip che unirebbe i mercati di Unione Europea e Canada. Sul piano commerciale, come sostiene la commissione Affari esteri del Senato italiano, si stima che il Ceta aumenterà l’interscambio di beni e servizi con l’UE del 22,9 per cento. Benefici sono attesi anche per gli scambi con l’Italia, che nel 2015 è stato l’ottavo maggiore paese fornitore e il tredicesimo mercato di destinazione, con esportazioni verso il Canada per circa 7,3 miliardi di dollari canadesi. La bilancia commerciale tra i due paesi nel 2015 è stata favorevole all’Italia per circa 5 miliardi.
Contrario agli accordi di libero scambio e in sintonia con i movimenti neoprotezionisti è il leader della Lega Nord Matteo Salvini, che durante un’intervista a Porta a Porta (minuto 3.40) ha detto:
“Oggi […] in commissione Esteri al senato, Pd e Forza Italia insieme, con il voto contrario della Lega, hanno approvato l’accordo tra Europa e Canada che sostanzialmente prevede, tra le altre cose, che sulle nostre tavole arrivi il grano canadese che è trattato con la vomitossina […] e il glifosate, che è un diserbante vietato in Italia […]. Noi togliamo qualsiasi protezione, qualsiasi barriera all’arrivo di grano tossico che in Canada è permesso e in Italia no. Questo riguarda la carne agli ormoni, la carne di bisonte, la carne di suino: si toglie qualsiasi protezione, qualsiasi barriera da qualsiasi prodotto che arriva da Oltreoceano. Di più, senza tutelare il made in Italy. Il finto parmesan, il finto prosciutto e il finto grana vengono assolutamente regolarizzati. Questo sta nell’accordo Ceta”.
IL PROCESSO DI RATIFICA
La dichiarazione merita almeno tre precisazioni.
Innanzitutto, la commissione Affari esteri del Senato non ha il potere di approvare un trattato internazionale. Vale la pena spiegare brevemente qual è il processo di approvazione e ratifica del Ceta. È un accordo commerciale, dunque la sua negoziazione è stata di competenza della Commissione europea, che ha ricevuto un mandato negoziale da parte degli stati membri. Il testo finale è stato poi approvato dal Parlamento europeo il 15 febbraio 2017. Tuttavia, per l’applicazione definitiva dell’accordo si dovrà aspettare non solo la ratifica da parte del Canada, ma anche quella di tutti gli stati membri della UE, in quanto accordo misto che coinvolge competenze sia europee che nazionali. Nel frattempo, una volta ottenuta la ratifica del Canada, il Ceta entrerà in applicazione provvisoria (articolo 218 del Tfue e decisione (Ue) 2017/38 del Consiglio). Per prassi consolidata, nel caso di accordi che riguardano sia materie di competenza esclusiva dell’Unione europea che materie di competenza concorrente degli Stati membri, l’applicazione provvisoria è limitata alle sole materie che rientrano nella competenza esclusiva dell’UE. Le parti dell’accordo per cui è stata riconosciuta la competenza concorrente tra Ue e stati membri saranno applicabili solo al momento dell’effettiva entrata in vigore del trattato, ossia dopo la ratifica da parte degli stati membri e dell’Unione Europea.
In Italia, la ratifica dei trattati internazionali spetta al Presidente della Repubblica (art. 87 della Costituzione), previa autorizzazione delle camere in alcuni casi particolari (art. 80 della Costituzione). In questo caso si sono verificate le condizioni che richiedono l’approvazione delle camere. Il testo dell’accordo ha sì ricevuto un parere positivo della commissione Affari esteri del Senato, come ricorda lo stesso Salvini, ma il procedimento di ratifica necessita di un passaggio parlamentare non ancora avvenuto. In commissione hanno votato a favore il Pd e Forza Italia, contro Movimento 5 Stelle, Sinistra italiana, Misto e Lega. Adesso il testo deve superare il dibattito parlamentare per poi approdare sul tavolo di Sergio Mattarella. Quindi niente è stato ancora approvato o, meglio, ratificato.
REGOLE NAZIONALI CHE RESTANO
Il secondo punto da precisare riguarda la rimozione delle protezioni agli scambi. Il Ceta, essendo un accordo di libero scambio, prevede la rimozione del 99 per cento dei dazi doganali tra Unione Europea e Canada, già molto bassi. Negli accordi commerciali moderni, tuttavia, si cerca anche di eliminare le cosiddette barriere non tariffarie al commercio, ossia procedure, regole e norme ridondanti che limitano gli scambi commerciali. Viene fatto mediante la semplificazione delle procedure doganali, il riconoscimento normativo e altre pratiche simili. Ma gli accordi commerciali non possono modificare le normative nazionali, né tantomeno abbassare gli standard sanitari imposti da un paese. Lo ribadisce anche lo strumento interpretativo comune, un allegato del trattato: “il Ceta non indebolirà le norme e le regolamentazioni rispettive concernenti la sicurezza degli alimenti, la sicurezza dei prodotti, la protezione dei consumatori, la salute, l’ambiente o la protezione del lavoro. Le merci importate, i prestatori di servizi e gli investitori devono continuare a rispettare i requisiti nazionali, compresi norme e regolamentazioni” (punto 1.d).
Ecco perché l’invasione di Ogm, carni agli ormoni e pollo alla candeggina risulta poco probabile, come invece paventato dai più accaniti critici del Ceta, come la Commissione ci tiene a specificare (punti 26 e 30). Se in Europa o in Italia determinati alimenti (o prodotti in genere) sono proibiti, continueranno a essere proibiti.
Salvini cita poi i casi della vomitossina e del glifosate, sostanze con cui, a suo parere, il grano canadese viene abitualmente trattato e che sono vietate in Italia. La vomitossina è una sostanza naturale, prodotta da muffe che si formano su prodotti agroalimentari lungo il ciclo di crescita, tossica per l’uomo e altri animali. La sua presenza negli agroalimentari è regolamentata al livello europeo, con il regolamento 1881 del 2006. Impone che i prodotti non possano essere commercializzati, se al loro interno vengono rinvenute quantità superiori al massimo indicato. Purtroppo in Canada, per via del clima umido, la sua presenza è molto frequente.
Il glifosate è invece un erbicida particolarmente diffuso in tutto il mondo, Italia compresa. Il dibattito sui suoi effetti cancerogeni, sviluppatosi negli ultimi anni, è aperto: l’Agenzia internazionale per la ricerca contro il cancro lo ha giudicato probabilmente cancerogeno, posizione differente a quella dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Il suo utilizzo è comunque disciplinato dal regolamento europeo 1313/2016 e dal decreto del ministero della Salute del 9 agosto 2016, con il quale si è provveduto, tra le altre cose, a revocare le autorizzazioni che prevedono l’utilizzo del glifosate nelle aree frequentate dalla popolazione e durante la pre-raccolta. Infatti, una procedura utilizzata all’estero, e ampiamente criticata dagli agricoltori italiani, è quella di trattare le spighe con il glifosate, le cui componenti renderebbero il grano più proteico. Questo creerebbe una forma di concorrenza sleale per il grano italiano non trattato, che rischierebbe, secondo la stessa Coldiretti, di essere sostituito dal grano straniero. Tuttavia, l’utilizzo di glifosate in fase di pre-raccolta è vietato in Italia, come dimostra il sequestro di Bari di 50mila tonnellate di grano canadese proprio per la sua presenza e di vomitossina oltre i limiti di legge, e la regola continuerà a essere applicata anche ai quantitativi di grano importati dalle altre nazioni. Su questo punto abbiamo in realtà riscontrato un po’ di confusione: la Coldiretti sostiene che grano trattato con il glifosate è comunque importato nonostante il divieto europeo e italiano e che, dopo l’abolizione dei dazi, arriverà ancora più grano canadese, dannoso sia per i consumatori che per i produttori. Per quanto abbiamo a lungo verificato la normativa, non possiamo ancora trarre conclusioni definitive, e ci riserviamo perciò di approfondire ulteriormente aspettando anche un chiarimento dalla stessa Coldiretti.
Per riassumere, la vomitossina non è una sostanza con cui viene trattato il grano, bensì il prodotto di muffe naturali e la sua presenza è regolamentata per via europea, una regolamentazione che non cambierà con l’introduzione dell’accordo Ceta. Il glifosate non è vietato in Italia se non in fase di pre-raccolta e tale regola dovrebbe continuare a valere.
Infine, il leader della Lega Nord afferma che nell’accordo non è prevista nessuna tutela per il made in Italy. Non solo non è corretto, ma è ingiusto nei confronti del primo accordo negoziato dalla Ue che riconosce le indicazioni geografiche, baluardo delle tradizioni locali italiane da sempre vittime di imitazioni nel mondo. Il Canada ha infatti accettato di tutelare 143 indicazioni geografiche europee (Ig), ossia beni alimentari tipici provenienti da determinate città o regioni europee. Quarantuno di questi prodotti sono italiani, più del 28 per cento del totale. Vale la pena ricordare che molti di questi prodotti costituiscono le più importanti esportazioni di generi alimentari e i produttori sono spesso piccole e medie imprese delle comunità rurali. È vero che rimarranno fuori dall’accordo ancora 250 delle 291 Ig italiane, le quali continueranno a non essere tutelate in Canada. Ma come si usa dire: meglio un accordo che nessun accordo, meglio 41 Ig riconosciute che nessuna. E il numero limitato di indicazioni geografiche incluse nell’accordo è dovuto al fatto che si protegge innanzitutto se è utile economicamente proteggere (se non esportiamo determinati prodotti o non hanno mercato sui paesi terzi, perché dovrebbe servire una protezione?) o se è necessario dal punto di vista giuridico (se c’è un effettivo pericolo di utilizzo dell’indicazione geografica da parte di produttori locali).
Il Canada proteggerà questi prodotti tradizionali dalle imitazioni, esattamente come già avviene in Unione Europea. In linea generale, non sarà più possibile utilizzare impropriamente il nome di una Ig, anche se l’origine vera del prodotto è indicata, se viene utilizzata l’indicazione geografica in traduzione o è accompagnata da espressioni quali “tipo”, “genere”, “stile”, “imitazione” o simili. La protezione è garantita dall’articolo 20.19 (comma 1 e 3) dell’accordo. Tuttavia è doveroso ricordare che alcune delle 41 Ig riceveranno dall’accordo una protezione minore: i formaggi asiago, fontina e gorgonzola continueranno a subire la concorrenza di prodotti omonimi canadesi, anche se questi ora dovranno riportare la scritta “made in Canada” insieme all’espressione “imitazione”, “tipo” o simili. Queste disposizioni non si applicano ai prodotti che sono stati commercializzati prima del 18 ottobre 2013. Come ricorda l’articolo 20.21 (comma 1 e 2).
Inoltre, nell’affermare che “il finto parmesan, il finto prosciutto e il finto grana vengono assolutamente regolarizzati” Salvini cita proprio tre delle 41 Ig che saranno protette con l’entrata in vigore del Ceta. Ed è significativo che proprio i consorzi di tali prodotti esprimano grande soddisfazione per l’inserimento nel trattato di una tutela per i loro prodotti (qui, qui e qui).
È comprensibile commettere qualche imprecisione quando si discute di commercio internazionale, una materia tecnica e complessa. Ma non è così nel caso di Matteo Salvini, che tratta l’argomento con una certa furbizia elettorale. La dichiarazione del segretario della Lega Nord è quindi FALSA. Gli accordi commerciali, e le loro ripercussioni sulla salute e l’alimentazione dei cittadini, sono un tema molto sensibile e per questo troppo spesso ne viene fatto un uso strumentale. Per farsi un’opinione personale e imparziale, conviene quindi leggere direttamente il testo dell’accordo.
Ecco come facciamo il fact-checking.
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
Lotta alla disuguaglianza: se Boschi gonfia i risultati
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 30/06/2017
SECONDO ISTAT LO STATO RIDUCE LE DISEGUAGLIANZE
Post e tweet euforici degli esponenti Pd (e non solo) hanno tempestato i social mercoledì 21 giugno, giorno in cui l’Istat ha pubblicato una simulazione sulla redistribuzione del reddito in Italia. Nel documento, l’istituto di via Balbo stima quanto l’intervento pubblico, ossia la somma dei trasferimenti e dei prelievi fiscali, abbia influenzato nel 2016 la distribuzione del reddito e i livelli di disuguaglianza.
La metodologia usata nella simulazione è la seguente: si prende in considerazione il sistema economico prima dell’intervento dello stato e se ne stima la disuguaglianza. Poi, la si confronta con quella che è osservabile a seguito dell’intervento pubblico, per comprendere se l’azione compiuta dallo stato abbia diminuito, aumentato o lasciato invariato il grado di disuguaglianza presente nel sistema.
I risultati dello studio ci dicono che l’azione dello stato ha effetti rilevanti in termini di una più equa distribuzione del reddito. Solo nel 2016 l’indice di Gini – la misura più utilizzata per calcolare le disuguaglianze, che varia da 0, eguaglianza, a 100, massima concentrazione dei redditi – è diminuito di 15,1 punti (da 45,2 a 30,1) a seguito dell’intervento pubblico.
Oltre a sottolineare nel dettaglio quali siano le categorie di reddito e di età più avvantaggiate dall’azione dello stato, il rapporto prende in considerazione anche gli effetti di tre misure adottate nel triennio 2014-2016: il bonus di 80 euro, l’aumento della quattordicesima per i pensionati e l’implementazione parziale del sostegno di inclusione attiva (Sia, una misura sperimentale contro la povertà ora sostituita dal reddito di inclusione). Anche in questo caso sembrerebbe che tutte e tre le misure abbiano svolto un ruolo importante nella lotta contro le disuguaglianze e la povertà. Così infatti recita il documento diffuso dall’Istat:
“Le principali politiche redistributive del periodo 2014-2016 (bonus di 80 euro, aumento della quattordicesima per i pensionati e sostegno di inclusione attiva), hanno aumentato l’equità della distribuzione dei redditi disponibili nel 2016 (l’indice di Gini è passato dal 30,4 al 30,1) e ridotto il rischio di povertà (dal 19,2 al 18,4%)”
COSA HA DETTO BOSCHI
Questa notizia, come facilmente prevedibile, ha suscitato la reazione entusiasta di numerosi esponenti della maggioranza che sostenne tali provvedimenti e, in particolare, del Partito Democratico. Per esempio, ecco cosa ha pubblicato sul suo profilo facebook il Sottosegretario di Palazzo Chigi Maria Elena Boschi:
Tuttavia, nel post ci sono tre punti su cui è utile fare qualche precisazione.
Per prima cosa Boschi dichiara che l’Istat avrebbe pubblicato dei dati. Come sappiamo, in realtà, lo studio in questione non si basa su un’analisi empirica, vale a dire su una valutazione di dati osservati nella realtà, quanto piuttosto su una microsimulazione teorica.
Non che questo sia un punto debole per il report dell’Istat, le microsimulazioni sono anzi utilizzate in tutta Europa per valutare l’efficacia delle policy. Al contrario di un’analisi empirica infatti, dove ogni elemento è il risultato dell’azione di molti fattori, le microsimulazioni riescono a isolare gli effetti dei singoli provvedimenti, controllando così l’azione esercitata dalle altre variabili. È molto difficile ottenere questo risultato quando ci si approccia a dei dati reali ed è per questo che i modelli teorici possono essere molto utili anche nel dibattito politico. Tuttavia, è importante sottolineare la differenza tra delle simulazioni teoriche e delle analisi di contabilità nazionale. Ed è lo stesso Roberto Monducci, direttore del dipartimento per la produzione statistica dell’Istat, che in un’intervista al Fatto smorza l’eccessivo entusiasmo che alcuni esponenti Pd avevano mostrato a seguito del report:
“Si tratta di esercizi, di un modello zeppo di ipotesi che stiamo sfruttando anche a fini informativi. Ma non è contabilità nazionale, non è una statistica. Lo riteniamo interessante anche per restituire un quadro informativo, anche in alcuni altri Paesi come la Francia lo fanno… però va preso per quello che è”.
Come a dire: è vero che parliamo di modelli molto affidabili e largamente usati in tutta Europa, ma va comunque ricordato che restano modelli, ossia strumenti che replicano la realtà senza una pretesa di completezza. Le informazioni che ne possiamo trarre sono quindi utili, ma necessitano di una contestualizzazione approfondita per non incappare in conclusioni politiche troppo affrettate.
Il secondo elemento su cui Boschi commette alcune imprecisioni riguarda la scomposizione degli effetti redistributivi delle tre misure adottate. Lo studio infatti non specifica quanto i provvedimenti abbiano influito singolarmente sulla diminuzione dell’indice di Gini e del rischio di povertà. E anche il post di Boschi si riferisce alle tre misure come se fossero una sola, alimentando non poca confusione sull’efficacia individuale dei provvedimenti. Confusione a cui mette ordine lo stesso Monducci, il quale arricchendo le informazioni fornite dallo studio rivela sempre al Fatto:
“Il bonus degli 80 euro “ha ridotto la disuguaglianza dal 30,4% al 30,2% e il rischio di povertà dal 19,2% al 18,5%”. Invece, aggiunge, “la quattordicesima ai pensionati riduce lievemente solo il rischio di povertà (dal 19,2% al 19,1%) e il Sia, entrato in vigore solo nella seconda metà del 2016, al momento non sembra aver prodotto effetti significativi”.
(Ansa)
Va ricordato che il Sia non nasce con l’obiettivo di diminuire l’indice di Gini o la diffusione della povertà, relativa o assoluta che sia, quanto con quello di limitare l’intensità della povertà assoluta (obiettivo su cui sembrerebbe aver raggiunto risultati considerevoli). Proprio per questo motivo, la diminuzione dello 0,3 dell’indice di Gini è imputabile principalmente al solo bonus degli 80 euro, e non all’insieme delle tre misure, come trapelerebbe invece dal post di Boschi. A sua discolpa, bisogna comunque far notare che le dichiarazioni di Monducci sono state rilasciate dopo la pubblicazione del post del Sottosegretario, che comunque non ha rilasciato alcuna dichiarazione per precisare o rettificare il contenuto del suo post.
UNA VALUTAZIONE TROPPO AFFRETTATA
Un terzo punto che merita di essere analizzato è quando Boschi scrive che il report di Istat certifica il successo delle tre misure. Nel dettaglio, il post recita:
“Oggi però #Istat pubblica dei dati che ci dicono che le principali politiche redistributive del periodo 2014-2016 hanno funzionato”.
In questa breve frase, Maria Elena Boschi considera positive le tre politiche attuate nel triennio 2014-2016 nella misura in cui queste abbiano diminuito la disuguaglianza del sistema. Il Sottosegretario cioè utilizza il solo parametro dell’efficacia redistributiva per valutare la bontà delle policy: in altri termini, maggiore è l’azione perequativa e migliore sarà per Boschi la valutazione.
Tuttavia le sue dichiarazioni suscitano un altro interrogativo: se le tre politiche vengono interpretate in chiave redistributiva, e vengono valutate positivamente perché hanno reso più eguale la nostra economia, è lecito chiedersi se a costi invariati si sarebbe potuto raggiungere un risultato migliore. Possiamo cioè chiederci se con le risorse utilizzate per i tre provvedimenti si sarebbe potuto attuare una policy alternativa che avrebbe generato risultati più soddisfacenti.
Prenderemo come controesempio il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle. Ovviamente sono misure diverse, nate con obiettivi differenti: il bonus degli 80 euro vuole infatti aiutare le famiglie con redditi medio-bassi, mentre la proposta pentastellata le famiglie più povere. Tuttavia noi qui adotteremo esclusivamente il metro utilizzato da Boschi nel suo post, senza svolgere analisi su parametri aggiuntivi: valuteremo migliore la proposta che riduce maggiormente la disuguaglianza.
Il costo complessivo degli 80 euro, dell’aumento della quattordicesima e del Sia ammonta a 10,72 miliardi di euro e ha ridotto l’indice di Gini di 0,3. La proposta pentastellata, già al centro di un nostro fact-checking, prevede l’erogazione di un sussidio che colmi il divario tra il reddito percepito e il livello di povertà. L’Istat ha stimato che nel 2015 questa misura sarebbe costata 14,9 miliardi e avrebbe ridotto l’indice di Gini di 1,8.
A fronte quindi di un 39 per cento di costi in più si sarebbe ridotto l’indice Gini per un valore pari a 6 volte la variazione prodotta dai tre provvedimenti, con una differenza quindi del +500%.
Sebbene queste stime si riferiscano a due anni diversi (i costi e gli effetti delle tre misure sono relativi al 2016, mentre le stime sul reddito di cittadinanza riguardano il 2015), emerge una chiara differenza tra i risultati.
Il Reddito di Cittadinanza riuscirebbe con una cifra vicina a quei 10,72 miliardi utilizzati per i tre provvedimenti a diminuire la disuguaglianza in maniera significativamente più rilevante.
È ovvio che tale comparazione non ha l’ambizione di trarre conclusioni definitive su quale provvedimento sia il migliore. Tuttavia se adottiamo esclusivamente il metro valutativo utilizzato da Boschi, i risultati sono abbastanza evidenti.
Nonostante gli effetti positivi evidenziati, sembra dunque che l’entusiasmo suscitato dal documento dell’Istat sia stato probabilmente eccessivo.
Tornando alla dichiarazione di Maria Elena Boschi, il giudizio non può essere però eccessivamente negativo. Il Sottosegretario del Governo sbaglia nel chiamare dati ciò che non lo è, e nel considerare come una sola cosa i tre provvedimenti. La dichiarazione di Maria Elena Boschi è quindi QUASI VERA. L’errore di valutazione politica, che quindi esula dal fact-checking, è semmai quello di misurare l’efficacia di una policy esclusivamente sul parametro dell’efficacia redistributiva, che, come abbiamo dimostrato, si presta a paragoni che non dovrebbero lasciare del tutto soddisfatti gli esponenti Pd.
Ecco come facciamo il fact-checking.
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
Se neanche i parlamentari conoscono il reddito di cittadinanza
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 15/06/2017
DUE VERSIONI DI UN’INTERVISTA E UN POST SU FACEBOOK
La proposta del Movimento 5 Stelle per l’introduzione di un reddito di cittadinanza sarà probabilmente uno dei temi centrali nella prossima campagna elettorale per le politiche.
Tuttavia, è ancora molta la confusione che aleggia intorno al provvedimento: non c’è trasmissione tv in cui ai parlamentari 5 Stelle non sia chiesto di spiegarne il funzionamento e le coperture necessarie per finanziarlo.
È accaduto anche a Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera (ce ne eravamo già occupati a proposito delle sue dichiarazioni sul mercato del lavoro). In un’intervista pubblicata il 10 giugno sull’edizione romana del Corriere della Sera Massimo Franco gli ha chiesto di spiegare come verrebbe distribuito il sussidio. Di Maio ha così risposto:
“A beneficiarne sarebbero circa 9 milioni di italiani sotto la soglia di povertà, cioè sotto i 700 euro al mese. Sarebbe data loro un’integrazione di 380 euro in cambio di corsi di formazione e lavori di pubblica utilità. E ai 4 milioni di poveri senza reddito andrebbero 780 euro”. Secondo Di Maio, quindi, la misura verrebbe a costare “14 miliardi di euro il primo anno, più 3 per riformare i centri impiego”.
Michele Anzaldi, deputato del Partito democratico e portavoce di Matteo Renzi, ha cercato di smontare la spiegazione del vicepresidente della Camera con un post su facebook. Anzaldi fa i suoi conti su due versioni della proposta, quella ufficiale depositata dal Movimento 5 Stelle attraverso il disegno di legge a prima firma Nunzia Catalfo e quella illustrata da Di Maio al Corriere. Secondo il deputato Pd, le due misure divergerebbero sia sul bacino dei beneficiari che sui costi totali. Con la prima infatti solo 398.700 famiglie riceverebbero il sussidio pieno di 780 euro, mentre 2,3 milioni di famiglie avrebbero un aiuto di 380 euro al mese. Il costo totale sarebbe di circa 14 miliardi. Per la seconda versione, invece, servirebbero circa 62 miliardi, una somma “equivalente a 2-3 leggi finanziarie” ed evidentemente troppo onerosa per qualsiasi governo. In altri termini, Anzaldi accusa Di Maio di non conoscere la proposta ufficiale presentata dal M5S.
COME FUNZIONA IL REDDITO DI CITTADINANZA
Prima di vedere se le dichiarazioni dei due parlamentari contengono errori, è importante comprendere come funzionerebbe il reddito di cittadinanza se venisse approvato dal parlamento.
Il disegno di legge M5S (n. 1148/2013) prevede – secondo le logiche del reddito minimo – un trasferimento pari alla differenza tra la soglia di povertà e il reddito familiare percepito. La misura utilizza l’indice di povertà monetaria individuato dall’Unione europea nel 2014, pari al 60 per cento del reddito mediano netto (in Italia 780 euro mensili, 9.360 all’anno, per un adulto single), ponderato per la composizione del nucleo familiare. In altre parole, vengono fissati redditi minimi per tutte le diverse composizioni familiari. Se un particolare nucleo familiare non raggiungesse quella soglia, lo stato verserebbe un contributo pari alla differenza tra i due valori (il cosiddetto poverty gap).
Il sussidio, che non costituirebbe reddito imponibile, sarebbe garantito a tutti i maggiorenni in possesso di cittadinanza italiana o di paesi dell’Unione europea, oppure a soggetti “provenienti da paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale”, al di fuori dei giovani tra i 18 e i 25 anni che non abbiano acquisito un diploma superiore. Il trasferimento, erogato senza termine temporale, richiede alcuni obblighi da parte dei beneficiari: iscriversi e recarsi almeno due volte al mese presso un centro per l’impiego, ricercare offerte di lavoro attraverso colloqui di orientamento e corsi di formazione e non rifiutare più di tre proposte di lavoro ritenute congrue. Secondo l’audizione dell’Istat sul Ddl le famiglie beneficiarie sarebbero – sulla base dei dati 2015 – 2 milioni e 759mila (10,6 per cento delle famiglie residenti), cioè circa 8,3 milioni di persone.
Per comprendere meglio il meccanismo, riportiamo la tabella con alcuni esempi di composizione familiare e il relativo massimo importo erogabile, che però sarebbe concesso solo a quei nuclei con reddito pari a zero – una percentuale piuttosto ridotta della popolazione – mentre tutte le altre famiglie con reddito positivo riceverebbero solo la differenza necessaria per arrivare a raggiungere la soglia di povertà.
Tabella 1
Fonte: allegato 1, disegno di legge n. 1148/2013
IL FACT-CHECKING
Entrambi i deputati – sia il pentastellato sia il democratico – incorrono in alcuni errori nella spiegazione della proposta. Luigi Di Maio sbaglia:
1) nella descrizione del sussidio, in particolare nella definizione della soglia di povertà (780 euro al mese per un single, e non 700),
2) nell’integrazione di 380 euro, che non trova fondamento nella proposta ufficiale del Movimento,
3) nell’affermare che sarebbero 4 milioni i residenti privi di ogni forma di reddito (qui probabilmente Di Maio si riferisce ai 4,6 milioni di cittadini in povertà assoluta, tra i quali tuttavia la maggior parte riceve un reddito e perciò avrebbe diritto a un’integrazione e non al trasferimento pieno di 780 euro).
L’intervista al Corriere è stata modificata alcune ore dopo, sebbene la versione su roma.corriere.it sia rimasta quella originale. Anche nella seconda versione, tuttavia, Di Maio ripete il terzo errore, ovvero che in Italia vi sarebbero 4 milioni di residenti senza alcun reddito.
Saranno quindi due le dichiarazioni di Di Maio che prenderemo in considerazione per il fact-checking. La prima si riferisce all’intervista pubblicata sulla pagina romana del Corriere, nella quale il vice-presidente della Camera inciampa in tutti e tre gli errori; la seconda si riferisce alla versione modificata e diffusa solo sulla pagina nazionale, nella quale Di Maio commette solo l’errore numero 3.
D’altra parte, cercando di correggere Di Maio, anche Anzaldi commette i suoi stessi errori. Presuppone infatti che le famiglie in povertà assoluta non percepiscano alcuna forma di reddito e dichiara che il sussidio per le restanti 2,3 milioni di famiglie sarebbe pari a 380 euro al mese, anche se “modulato in base al reddito”. Anche qui il riferimento ai 380 euro risulta incomprensibile in quanto, secondo i documenti in nostro possesso, non è ricavabile da nessuna cifra contenuta nel disegno di legge. Non vi è infatti alcun sussidio pari a 380 euro destinato a circa 9 milioni di italiani, come ha affermato Di Maio, né vi è ragione per assumere che il beneficio medio sia pari a 380 euro, come scrive Anzaldi. Un sussidio di questo tipo potrebbe essere ricevuto da un adulto single con un reddito pari a 400 euro al mese (380 euro gli permetterebbero di arrivare ai 780), ma è solamente un esempio e non rappresenta la proposta nella sua generalità.
Quanto al costo pubblico della misura, per Di Maio la spesa sarebbe di 14 miliardi di euro, a cui ne andrebbero aggiunti 3 per finanziare i centri per l’impiego. Per Anzaldi il costo sarebbe lo stesso, sebbene il suo ragionamento sia frutto di un calcolo non corretto. Secondo il disegno di legge, invece, gli oneri per lo stato ammonterebbero a 16 miliardi, che il Movimento 5 Stelle vorrebbe finanziare con le coperture aggiornate alcune settimane fa. Secondo Istat la spesa pubblica necessaria sarebbe stata nel 2015 di 14,9 miliardi, mentre per l’Inps è di 30 miliardi (audizione del presidente Boeri alla commissione Lavoro del Senato). Il divario tra le due stime potrebbe essere in parte dovuto al fatto che Istat include nel reddito familiare la rendita catastale figurativa per i proprietari dell’abitazione di residenza, a differenza di quanto fa Eurostat per calcolare l’indice di povertà monetaria, come ipotizzato da Massimo Baldini e Cristiano Gori in una recente pubblicazione.
Grande è dunque la confusione sotto il cielo sul reddito di cittadinanza, talvolta per responsabilità degli stessi parlamentari. Per ridurla, si potrebbe cominciare con il chiamare le cose con il loro nome. M5S propone l’introduzione di un reddito minimo, non di un reddito di cittadinanza. Nel caso di un single, per esempio, il sussidio potenziale sarebbe di 780 euro. Chi già dispone di un reddito di almeno 780 euro, per quanto “cittadino”, non avrebbe diritto ad alcun trasferimento. Chi guadagna una cifra tra 0 e 780 euro avrebbe diritto a un’integrazione parziale che lo porti a raggiungere i 780 euro. Solamente chi guadagna zero avrebbe diritto a tutti i 780 euro. Se le parole hanno un senso, con reddito di cittadinanza si intende invece una misura universale distribuita ai cittadini di una comunità nella stessa quantità indipendentemente dal reddito percepito.
Dunque, i giudizi: la prima versione della dichiarazione di Luigi Di Maio è FALSA, mentre la seconda ottiene un QUASI VERO. Difficile capire a quale delle due si debba dare credito.
Il post su facebook di Michele Anzaldi è invece PARZIALMENTE FALSO. La differenza di questo giudizio rispetto a quello di Di Maio sta nel fatto che il deputato Pd non compie l’errore numero 1 – individua quindi correttamente la soglia di povertà a 780 euro – e che nel compiere l’errore numero 2 –l’integrazione di 380 euro- riconosce che sarebbe un trasferimento modulato in base al reddito. Questi due elementi rendono la falsità della sua dichiarazione meno grave di quella di Di Maio.
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
Ma davvero si va in pensione vecchi decrepiti?
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’ 01/06/2017
LE PAROLE DI CAZZOLA (E IL SILENZIO DI SALVINI)
Sei anni sono trascorsi dall’ultima riforma pensionistica strutturale – firmata da Elsa Fornero – e ancora le critiche e le polemiche non sembrano a placarsi. È in particolare la Lega Nord a criticare i limiti anagrafici e contributivi – considerati eccessivi – richiesti per raggiungere la pensione.
Martedì 23 maggio, su La7 durante la trasmissione DiMartedì c’è stato un lungo diverbio sulle pensioni tra il segretario della Lega, Matteo Salvini, e Giuliano Cazzola, ex sindacalista Cgil, in seguito deputato del Popolo della libertà e poi militante di Scelta civica e Nuovo Centro Destra. I due si erano già scontrati la settimana precedente, sempre a DiMartedì e ancora sulla riforma Fornero (al minuto 1:13:08). Il 23 maggio, per smentire le critiche di Salvini alla riforma Fornero, Cazzola ha dichiarato al minuto 3:45:
“Nel 2016 sono andati in pensione 77mila italiani del Fondo pensioni lavoratori dipendenti in pensione anticipata, e ci sono andati – in media – a 60,5 anni. In pensione di vecchiaia sono andati 38mila. Di questi 77mila italiani, la bellezza del 40 per cento circa […], 35mila quindi la metà, sono andati con un’età compresa tra i 55 e 59 anni. […] In Italia su 100 pensioni di vecchiaia, ce ne sono 202 di anzianità, e la gente in maggioranza va in pensione a 60 anni”.
Numeri molto simili a quelli citati la settimana precedente; in entrambe le occasioni il segretario della Lega Nord non ha replicato né fornito una lettura dei dati alternativa, per quanto abbia scritto su Facebook di aver “asfaltato” il commentatore. Per questo ci limiteremo a verificare le parole di Cazzola, che ha poi rincarato la dose con un post su formiche.net.
PENSIONI DI VECCHIAIA E PENSIONI ANTICIPATE
La fonte è l’osservatorio dei flussi di pensionamento dell’Inps, in particolare l’ultima rilevazione sul 2016 ed il primo trimestre 2017. Prima di iniziare l’analisi è bene chiarirsi le idee sulle tipologie di assegni pensionistici, con l’aiuto della tabella 1. Le pensioni di vecchiaia richiedono in genere un requisito di anzianità contributiva piuttosto basso (20 anni) e il raggiungimento di elevati limiti anagrafici (65 anni e 7 mesi per le donne, un anno in più per gli uomini).
Le pensioni anticipate prevedono invece requisiti contributivi importanti (circa 42 anni di contribuzione), mentre i limiti anagrafici passano in secondo piano. Con la riforma Fornero hanno progressivamente preso il posto delle pensioni d’anzianità, seppur una piccola quota di nuove pensioni risulti ancora normata dalle precedenti regole: per questo l’Inps, nei suoi report annuali, le conteggia assieme nella stessa colonna e Cazzola le utilizza al pari di sinonimi.
Tabella 1
QUANTI NUOVI PENSIONATI NEL 2016
Come è possibile leggere dalla tabella 2, Cazzola ha ragione nel riportare i dati sulla gestione dei lavoratori dipendenti: nel 2016 le nuove pensioni anticipate e di anzianità sono state 77.110, per un’età media di 60,5 anni; le nuove pensioni di vecchiaia sono state invece 38.143, per un’età media di 65,5. È inoltre corretto affermare che circa 35mila – 35.374 per la precisione, all’incirca il 46 per cento – delle pensioni di anzianità in decorrenza sono state raggiunte con un’età tra i 55 e i 59 anni. Per la stessa classe d’età le nuove pensioni di vecchiaia erogate nel 2016 sono state solo 732. Inps conferma anche che per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti su 100 pensioni di vecchiaia in decorrenza vengono erogate 202 nuove pensioni anticipate.
Tabella 2
Fonte: Inps, Monitoraggio dei flussi di pensionamento
Giuliano Cazzola prende in considerazione – lo ammette lui stesso – i dati riferiti ai soli lavoratori dipendenti. D’altronde le altre gestioni – coltivatori diretti, mezzadri e coloni, artigiani, commercianti e parasubordinati – sono regolate da normative differenti e sottoposte ad aliquote contributive ridotte. Perciò non sono del tutto comparabili tra loro. Ad ogni modo, anche prendendo in considerazione tutte le gestioni pensionistiche nel 2016, al netto degli assegni sociali che per convenzione vengono conteggiati da Inps tra le pensioni di vecchiaia, i nuovi assegni di vecchiaia risultano comunque circa 35mila in meno rispetto a quelli per anzianità (84.101 contro 118.084). Anche l’età media di accesso al trattamento pensionistico per anzianità, tenuto conto della totalità delle gestioni e non solo dei lavoratori dipendenti, non varia in modo significativo da 60,5 anni, il dato citato da Cazzola.
Quanto all’ultima parte della dichiarazione di Giuliano Cazzola – il fatto che la maggioranza degli italiani andrebbe in pensione a 60 anni – si tratta di un’affermazione che non è possibile verificare perché i dati dell’Inps riportano solo il numero dei nuovi assegni pensionistici erogati e non quello dei nuovi pensionati. I numeri potrebbero infatti non coincidere per la possibilità di ricevere più di un trattamento pensionistico.
Alla luce dei dati corretti citati da Giuliano Cazzola e dei distinguo che è necessario fare in merito alla maggioranza dei nuovi pensionati, la dichiarazione risulta QUASI VERA. Verificheremo se al prossimo appuntamento televisivo Matteo Salvini riuscirà a smentire questa lettura dei dati e con quali argomentazioni: finora – in due puntate di DiMartedì – non ci ha nemmeno provato.
AGGIORNAMENTO AL 6 GIUGNO
A seguito della risposta dell’Onorevole Giuliano Cazzola, il giudizio del nostro fact-checking sulla sua dichiarazione è diventato VERO.
Se per Renzi il buco dell’Etruria è poca cosa
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 25/05/2017
Ritorna il fact-checking de lavoce.info. Passiamo al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca a Matteo Renzi e alle sue dichiarazioni sulle perdite di Banca Etruria.
COSA HA DETTO MATTEO RENZI
La vicenda di Banca Etruria è stata riproposta dai media a seguito del racconto di Ferruccio De Bortoli sulla presunta richiesta da parte di Maria Elena Boschi a Federico Ghizzoni per l’acquisto della banca aretina da parte di Unicredit, di cui Ghizzoni era amministratore delegato.
È tornato sull’argomento anche Matteo Renzi, il quale domenica 14 maggio durante un’intervista a L’Arena su Rai1 ha detto (al minuto 1:44:57):
“Le sembra possibile che il problema delle banche in questo paese sia una piccola banca di provincia ad Arezzo […] le cui perdite valgono l’1,9 per cento delle perdite delle banche popolari, e non i veri scandali clamorosi che ci sono stati? Da Siena, alle banche venete e pugliesi”.
La dichiarazione è vaga e lascia spazio a molte interpretazioni. Abbiamo quindi chiesto ai principali enti che si occupano di temi bancari se la percentuale citata dall’ex Presidente del Consiglio fosse contenuta in una loro analisi, pubblicazione o comunicato stampa. Ci siamo rivolti a Banca d’Italia, Consob, Abi, Mediobanca e all’Associazione nazionale delle banche popolari: nessuna di loro ci ha confermato l’origine del dato. Abbiamo inoltre contattato telefonicamente il portavoce di Matteo Renzi, il deputato Michele Anzaldi, per appurarne l’origine e l’interpretazione originale, senza ricevere alcuna risposta. Proprio per l’incertezza sul senso della dichiarazione di Renzi abbiamo prodotto due giudizi, sulle interpretazioni a nostro parere più probabili.
La dichiarazione risulta vaga soprattutto sul concetto di perdita. Faremo quindi riferimento alla definizione più tradizionale del termine, ossia alla differenza negativa tra ricavi e costi di esercizio.
Inoltre, non è chiaro a quale anno il segretario Pd faccia riferimento. Gli ultimi dati disponibili sulle perdite delle banche popolari si riferiscono al 2015, anno in cui tuttavia Banca Etruria ha pubblicato due bilanci in quanto sottoposta prima ad amministrazione straordinaria e poi al procedimento di risoluzione. Il primo bilancio si riferisce al periodo antecedente la risoluzione, quindi dall’1 gennaio al 22 novembre (freccia verde). Il secondo è il bilancio di Nuova Banca Etruria, un ente-ponte sgravato dai crediti deteriorati e operativo nei soli ultimi 38 giorni dell’anno (freccia gialla). I dati sul 2015 che seguiranno si riferiscono alla Banca Etruria pre-risoluzione e sono quindi da considerarsi approssimati per difetto. Riporteremo per completezza anche i dati del 2014.
Fatte tutte queste premesse metodologiche, ecco i numeri di fonte Mediobanca. I dati si riferiscono alle 37 principali banche popolari nel 2014 e alle 32 nell’anno successivo, che possiamo considerare una buona approssimazione dell’intero settore. Per il 2014 facciamo riferimento al Focus sulle banche popolari, mentre per il 2015 a dati anticipati dall’ufficio stampa e non ancora pubblicati; li abbiamo integrati con i dati sul settore bancario di Banca d’Italia contenuti nella Relazione Annuale.
PRIMA IPOTESI: RENZI SI RIFERIVA AL BILANCIO NON CONSOLIDATO
Il bilancio non consolidato di Banca Popolare dell’Etruria (freccia rossa) ha registrato nel 2014 una perdita di 526 milioni di euro e nei primi undici mesi del 2015 (freccia verde) una di 625 milioni. Negli stessi anni, il risultato totale delle principali banche popolari è in negativo rispettivamente di 4,6 miliardi e 1,42 miliardi di euro. Nel 2014 la perdita della banca toscana rappresenta l’11,46 per cento del totale, mentre nel 2015 addirittura il 44 per cento. Una percentuale, quest’ultima, probabilmente approssimata per difetto poiché frutto del rapporto tra la perdita di Banca Etruria nei primi undici mesi e la perdita annuale del settore. In entrambi i casi le percentuali – molto differenti fra loro per la forte riduzione delle perdite del settore nell’arco dei due anni – rimangono distanti dall’1,9 per cento citato da Matteo Renzi. Alla luce di tali dati dunque la sua dichiarazione secondo la prima ipotesi appare lontana dalla realtà, e dunque FALSA.
SECONDA IPOTESI: RENZI SI RIFERIVA AL BILANCIO CONSOLIDATO
C’è una seconda interpretazione possibile: forse, Renzi si riferiva ai bilanci dei gruppi bancari e non delle singole banche popolari (cioè ai bilanci consolidati e non ai singoli). Si tratterebbe in effetti di un confronto maggiormente significativo per valutare l’incidenza della banca aretina sulle perdite. Tuttavia, come è possibile osservare dalla timeline dei bilanci, Banca Etruria non ha pubblicato il bilancio consolidato del 2014, né quello aggiornato a novembre dell’anno successivo. Prenderemo quindi in considerazione l’unico dato disponibile su questo periodo, ossia quello sui primi nove mesi del 2014 (freccia arancio).
Fino a settembre 2014 le perdite del gruppo Etruria ammontavano a 126 milioni, mentre il risultato netto consolidato delle popolari ha superato a fine 2014 i 4 miliardi di euro di perdite. Il gruppo Banca Etruria rappresenta il 2,98 per cento del totale, un numero vicino al dato riportato dal segretario Pd. Partendo ancora dai bilanci consolidati 2014, un’altra ipotesi potrebbe essere calcolare l’incidenza delle perdite di Banca Etruria sulle sole banche popolari in perdita, e non sul risultato netto di settore: anche in questo caso si ottiene una percentuale vicina all’1,9 per cento. Tuttavia, bisogna notare che questi sono risultati di un rapporto tra due dati con orizzonti temporali diversi (9 mesi contro 12), e quindi difficilmente confrontabili. Inoltre, perché citare i dati consolidati del 2014 quando sono a disposizione i dati non consolidati del 2015? Alla luce di ciò il dato dell’1,9 per cento può comunque apparire parzialmente confermato dai numeri per la seconda ipotesi, e dunque QUASI VERO.
In conclusione, tra un dato falso secondo la prima ipotesi e uno quasi vero, gli elementi in nostro possesso ci portano a definire la dichiarazione di Matteo Renzi come FALSA. Se anche per il 2014 Etruria è stata poca cosa nell’universo problematico delle banche popolari, la stessa cosa – alla luce delle informazioni disponibili – non può essere affermata per il 2015.
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
E’ giusto quel che dice Di Maio sul lavoro?
ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’11/05/2017
Ritorna il fact-checking de lavoce.info. Passiamo al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca a Luigi Di Maio e alle sue affermazioni sul mercato del lavoro.
COSA HA DETTO DI MAIO
Da quando è stato approvato il Jobs Act, in corrispondenza della diffusione dei bollettini di Istat, Inps e ministero del Lavoro, si accendono feroci polemiche sull’andamento del mercato del lavoro. Polemizzare su dati mensili inevitabilmente influenzati da oscillazioni temporanee e a volte casuali, non è molto produttivo. Da alcuni mesi, però, l’Istat diffonde l’analisi dei flussi occupazionali per classe d’età al netto dell’effetto demografico, mentre dal 2016 ministero del Lavoro, Inps e Istat producono – finalmente – una nota congiunta trimestrale.
Se poi alle polemiche sui numeri si aggiunge la diffusione di dati e commenti non accurati, il dibattito pubblico non fa progressi, anzi ne soffre. Come accaduto durante l’ultima puntata della trasmissione DiMartedì (La7), durante la quale Luigi Di Maio ha dichiarato (al minuto 45:32): “Abbiamo un paese che in questo momento non se la passa bene: tutti gli indici di […] disoccupazione stanno aumentando, e diminuisce l’occupazione; la disoccupazione giovanile quando diminuisce è perché ci sono giovani che o espatriano o perdono la speranza di trovare lavoro, non che diminuisca perché abbiamo trovato nuovi posti di lavoro”.
I DATI SUL MERCATO DEL LAVORO
Analizziamo dunque la sua dichiarazione alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro diffusi da Istat. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto un picco nel novembre 2014 – quando era al 13 per cento. Da allora si è ridotto fino a scendere all’11,4 per cento a settembre 2015, per poi risalire all’11,7, valore di marzo 2017, per un totale di 105mila disoccupati in più rispetto al settembre 2015. È forse a questa risalita che si riferisce l’onorevole Di Maio.
Il trend del tasso di occupazione è invece più lineare: dopo aver raggiunto un punto di minimo nel settembre 2013 (55 per cento), a marzo 2017 si attesta al 58 per cento, con un aumento degli occupati di quasi 750mila unità. Sono stati così quasi raggiunti i livelli occupazionali pre-crisi, il cui picco è stato registrato ad aprile 2008 con quasi il 59 per cento di occupati. A questi dati vanno aggiunti gli inattivi, in forte calo dal 2011 a oggi, come si vede dalla figura 1.
Nei dati su occupati e inattivi non si trova dunque evidenza delle affermazioni del vicepresidente della Camera.
Fonte: Istat
GIOVANI: SCORAGGIATI E IN FUGA?
Di Maio ha parlato anche di disoccupazione giovanile, affermando che la sua riduzione non è un dato positivo poiché sarebbe il riflesso dell’aumento degli inattivi e degli emigrati.
Dai dati per la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni si osserva una riduzione di 10 punti percentuali della frazione di giovani disoccupati sul totale della forza lavoro, dal 44,1 per cento di marzo 2014 al 34,1 per cento del marzo 2017. Dati precisi sulla “fuga di cervelli” non sono disponibili; i numeri a cui possiamo affidarci sono quelli delle iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) riportati dal “Rapporto sugli italiani all’estero” prodotto annualmente dalla Fondazione Migrantes. L’iscrizione al registro tuttavia non è obbligatoria nel corso del primo anno di permanenza fuori dai confini nazionali e quindi molto probabilmente risulta approssimata per difetto. Sulla base di una simulazione sul 2014 e il 2015, che calcola, rispettivamente, 32mila e 39mila espatri tra i 18 e i 34 anni, non sembra plausibile affermare che la riduzione di disoccupati fra i giovani sia stata completamente assorbita da nuovi inattivi e persone partiti in cerca di fortuna all’estero. Da gennaio 2014 a dicembre 2015, infatti, i disoccupati si sono ridotti di 116mila unità, gli inattivi sono aumentati di 13mila, gli espatriati sono stati circa 71mila, mentre la classe 15-24 anni si è ridotta di 68mila giovani per via dell’effetto demografico. L’affermazione di Di Maio potrebbe essere vera solo assumendo ipotesi piuttosto improbabili: ad esempio nel caso in cui tutti gli espatriati, gli inattivi e metà del calo demografico siano stati disoccupati.
Inoltre, poiché i dati sugli espatri per la fascia d’età tra i 15 e i 24 anni non sono disponibili, stiamo facendo riferimento a dati di espatriati tra i 18 e i 34 anni, di cui i più giovani rappresentano solo una parte. È ragionevole quindi pensare che l’effetto dell’espatrio sulla riduzione di disoccupati e inattivi tra i 15 e i 24 anni sia residuale.
Fonte: Istat
Nota: abbiamo scelto di usare i tassi invece dei valori assoluti a causa dell’effetto demografico che in questa fascia d’età è piuttosto forte.
Forse l’esponente del Movimento 5 Stelle prende in considerazione periodi più brevi? Seppur poco utili all’analisi, che è preferibile svolgere sul medio-lungo periodo, anche i trend congiunturali e tendenziali non sembrano dare ragione al vicepresidente della Camera. L’ultimo bollettino Istat mostra come nel primo trimestre del 2017 gli occupati siano aumentati di 35mila unità rispetto all’ultimo trimestre 2016, mentre disoccupati e inattivi sono diminuiti, rispettivamente di 38mila e 32mila unità. Anche tra i più giovani i risultati non sono in linea con quanto afferma Di Maio: rispetto all’ultimo trimestre i giovani lavoratori sono aumentati di 24mila, i disoccupati ridotti di 72mila e gli inattivi aumentati di 40mila (variazione trimestrale positiva che diventa negativa se però prendiamo in considerazione l’intero anno marzo 2016-marzo2017).
Con la grande recessione e la crisi dell’euro, il mercato del lavoro ha molto sofferto. Dalla fine del 2014 si registra però un miglioramento in quasi tutte le variabili. Miglioramento che tuttavia sta perdendo vigore negli ultimi mesi, soprattutto per i disoccupati. Si tratta quindi di un rallentamento, non di un peggioramento come sostiene Di Maio.
Da parte di un giovane politico che propone, assieme al suo Movimento, di cambiare radicalmente il nostro paese ci si attende una analisi della realtà accurata per poter sviluppare proposte di riforma efficaci. In questo caso, purtroppo, non è avvenuto: la dichiarazione di Di Maio è infatti una BUFALA.
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
Alitalia è davvero indispensabile?
ARTICOLO PUBBLICO SU LAVOCE.INFO IL 03/05/2017
LE PAROLE DEL MINISTRO CALENDA
Nelle ultime settimane, Alitalia è tornata prepotentemente al centro del dibattito politico, per via delle (ennesime) difficoltà finanziarie e il successivo rifiuto del piano industriale proposto dagli azionisti. Le ultime notizie sono il prestito ponte di 600 milioni concesso dal governo e la nomina dei tre commissari: Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari.
Su un possibile fallimento dell’ex compagnia di bandiera, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda nel corso de L’Intervista su SkyTg24 ha dichiarato: “Non si può far fallire dalla mattina alla sera per una ragione molto semplice: perché non avremmo più collegamenti aerei con una parte significativa del paese. Da domani non ci sarebbero più collegamenti per moltissime delle destinazioni italiane, Alitalia oggi ha una quota molto rilevante del traffico, e non ci sarebbero subito altre aziende pronte a prenderlo. O meglio ci sarebbe un periodo in cui questi collegamenti sarebbero staccati”.
DOVE VOLA ALITALIA
Proviamo a valutare l’accuratezza della dichiarazione del ministro, grazie ai dati forniti dall’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac). Per cominciare, qualche numero assoluto: in Italia nel 2016 hanno volato poco più di 164 milioni di passeggeri, di cui 60 milioni sulle rotte nazionali e 104 da e verso l’estero; una crescita notevole e costante, rispetto ai 90 milioni complessivi del 2001. Nel 2016 la quota di mercato di Alitalia in termini di passeggeri trasportati si attesta al 21 per cento sulle rotte nazionali, mercato di cui è ancora leader, e all’11 per cento sulle rotte internazionali. Ryanair detiene il 17 per cento sul mercato nazionale e il 21 sulle rotte da e per l’estero, dopo il sorpasso avvenuto nel 2014 proprio ai danni di Alitalia. In cima al podio del mercato aereo complessivo si posiziona la compagnia irlandese, con la sua quota del 20 per cento, seguita da Alitalia (14 per cento) e Easyjet (10 per cento). La compagnia di proprietà di Eithad dunque – seppur rimanendo il secondo vettore aereo – detiene ormai poco più di un sesto del mercato italiano complessivo.
Fonte: Enac
Se si guarda al 1997 – primo anno di piena liberalizzazione del trasporto aereo – si notano differenze sostanziali: secondo Ugo Arrigo che riporta dati Enac, Alitalia trasportava allora il 75 per cento dei passeggeri sul mercato italiano e circa un terzo di coloro che viaggiavano su rotte internazionali.
Un trend che è comune – seppur non in modo tanto netto – all’intero traffico aereo commerciale italiano, se è vero che nel 2004 i vettori low cost detenevano solo il 6,2 per cento del mercato, mentre oggi sfidano la supremazia dei vettori tradizionali e sono destinati a superarli (come già hanno fatto sulle sole rotte internazionali).
Fonte: Enac
Un eventuale fallimento di Alitalia sembrerebbe non precludere quindi il raggiungimento di alcune regioni italiane, come invece paventato da Calenda. Infatti, sui 42 aeroporti commerciali italiani quasi la metà è caratterizzata dalla predominanza di Ryanair e soltanto 8 – tra cui spiccano tuttavia Milano Linate e Roma Fiumicino – vedono Alitalia come proprio vettore di riferimento. Nemmeno le regioni del Sud e le isole (se non probabilmente le piccole Pantelleria e Lampedusa) rimarrebbero isolate, dal momento che sono soltanto quattro gli aeroporti dominati da Alitalia che si trovano in quelle regioni. Per di più, Ryanair è il vettore principale di tutti gli aeroporti dell’isola più popolosa, la Sicilia.
Fonte: Enac
Se per buona parte del secolo scorso, Alitalia ha goduto di un ruolo da sostanziale monopolista pubblico, oggi i passeggeri italiani e stranieri non rischierebbero di subire eccessivi disagi dal fallimento di Alitalia, grazie al mercato del trasporto aereo altamente concorrenziale e alla distribuzione non polarizzata tra Nord e Sud delle rotte Alitalia più diffuse. Sarebbe certamente necessario un periodo di assestamento perché gli altri vettori coprano la quota di passeggeri lasciati a terra, durante il quale tuttavia non sembrano esserci le condizioni per l’isolamento di intere aree del paese, né di singole destinazioni. Perciò la dichiarazione di Carlo Calenda è PARZIALMENTE FALSA.
Carlo Calenda ci ha risposto su Twitter:
@CarloCalenda Grazie della risposta! Ecco la spiegazione riguardo ad #Alitalia e la nostra fact-checking policy: https://t.co/HkfxNQ0OXZ pic.twitter.com/yva11j4JJU
— lavoce.info (@lavoceinfo) 3 maggio 2017
Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi
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