Siamo diventati ciechi?

Fosse stato per la mia cerchia di amici e conoscenti +Europa avrebbe dovuto agevolmente superare almeno, almeno, il 10 per cento. Ha raggiunto forse un quarto dei voti. È capitato anche a voi? Allora questo racconto personale parla un po’ anche di voi.

La giornata di ieri è l’ennesima occasione in cui mi sono sentito cieco. Politicamente, si intende. È un senso di impotenza e di inettitudine a percepire i cambiamenti. Non sento il vento arrivare, nemmeno una tempesta come questa. Non ho avuto sentore di una vittoria di Lega e Movimento 5 Stelle se non negli ultimi due giorni, e non di una portata tale. Sensazione speculare a quella provata il 4 dicembre di due anni fa, ma lì c’era lo scusante di essere coinvolto in prima persona. È una considerazione particolarmente sgradevole, a 21 anni, per chi vive di politica: ci si attenderebbe che dopo ore trascorse a confrontarsi, o davanti allo smartphone e ai giornali di aver acquisito una certa capacità di prevedere lo stato degli eventi, sentire il vento che arriva. E invece no. Ed è maledettamente frustrante.

Non ho idea, se non il classico sentito dire, del motivo per cui un mio coetaneo, nato in un mondo libero e globalizzato, è portato a scegliere Lega Nord. Non ho capito il motivo per cui il 60 per cento degli italiani hanno votato No al referendum costituzionale. Non capisco cosa ci trovino tanti meridionali nella storia e nello stile di Luigi Di Maio. Una mancanza grave, non capire i fatti, per chi aspira a raccontarli per lavoro e vocazione. Mancanza figlia di una grande fortuna: essere privilegiato. Nato in una famiglia benestante, educato in scuole-bene, studente universitario e Erasmus, amico di persone della mia stessa estrazione. Non so come si sente un disoccupato, né come sia subire un licenziamento. Né tanto meno vivere nella povertà. Chi cioè ha guidato ieri la vittoria degli estremisti.

L’unico conforto è non essere solo: sia la sinistra, che gran parte dei media sono altrettanto disorientati. È probabile che la maggior parte dei commentatori che si sono affacciati nel corso delle varie maratone elettorali non abbiano mai votato per i due partiti che oggi rappresentano la metà dei votanti. Anzi, probabilmente il giornalismo ha pure una responsabilità maggiore, con poche esclusioni: per qualche click o punto di share in più, da anni si riempiono palinsesti e homepage di notizie di cronaca nera, di “emergenze sbarchi” e notizie sensazionaliste o non verificate. Se sommiamo a questo un racconto della campagna elettorale quasi completamente sdraiato sulla politica, con poche domande scomode e pochissimo fact-checking, il giornalismo italiano ha fatto da volano – involontario (e questo ha del beffardo) – agli estremisti.

Ma la folta compagnia non riduce lo sconforto. Ho pensato che internet avrebbe potuto aprire porte prima inaccessibili al racconto dei fatti. E in parte è così. La verifica puntuale e rapida dei dati e delle narrazioni fino a quindici anni fa sarebbe stata impensabile. Ma allo stesso tempo acceca: ti illude che il mondo sia su Twitter o, peggio, che il mondo sia Twitter. Quello vero, di mondo, corre altrove, il vento spira e ci scappa. Estraneo.

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Ma davvero si va in pensione vecchi decrepiti?

ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’ 01/06/2017


Se Matteo Renzi amministra davvero Matteo Renzi News

Negli ultimi tre giorni si è parlato e scritto moltissimo riguardo ad un fotomontaggio, pubblicato dalla pagina Facebook Matteo Renzi News. Eccolo:

Cattura

I messaggi su Facebook e Twitter sono stati numerosissimi: d’altronde cosa meglio dell’ennesima polemica sui social per combattere la noia del lunedì pomeriggio? Tra i tanti: ne hanno scritto il Corriere.it, Massimo Mantellini su manteblog, il Movimento 5 Stelle sul blog di Grillo e quelli di Submarine qui.

E così una pagina Facebook da 67mila like – un risultato modesto nell’oceano dei social network – ha raggiunto una popolarità insperata. Ma le schermaglie tra renziani imbarazzati e militanti di altri partiti non hanno tardato a comparire, con giustificazioni da parte dei primi sempre molto simili: “Renzi non c’entra“, “si tratta di un gruppo di sostegno“, “non è una pagina ufficiale“, “sono più renziani di Renzi“. Si tratterebbe dunque di una pagina di fan, come ne esistono tante altre.

Ebbene, così non è: la pagina Matteo Renzi News è amministrata da collaboratori stretti dell’ex premier, probabilmente in forma organizzata.

Alla stessa conclusione sono giunti anche Il Fatto Quotidiano e Linkiesta.it, senza tuttavia riuscire a provarlo. A confermare la vicinanza della pagina allo staff di Renzi sono fonti tra chi si è occupato della pagina in passato, che indicano nella figura di Alessio De Giorgi uno dei gestori. De Giorgi, “renziano della prima ora” e fondatore di Gay.it, è stato collaboratore di Matteo Renzi a Palazzo Chigi da maggio dell’anno scorso, per occuparsi di “comunicazione digitale, Internet e social network. Quelli suoi, del premier, non quelli di Palazzo Chigi“, come ha affermato lui stesso in un’intervista a Repubblica di maggio 2016. Proprio qualche mese più tardi la pagina – che aveva il nome di “Matteo Renzi è il nostro Presidente“, fondata nel 2014 – sarebbe passata nelle sue mani, grazie ad uno scambio con i precedenti amministratori. E’ da quel momento, in piena campagna referendaria, che i toni diventano più accesi e gentisti, lo storytelling sul premier più incisivo ed il linguaggio si avvicina prepotentemente allo stile del Movimento 5 Stelle. Compaiono gli incessanti inviti a CONDIVIDERE i post e la grafica ed il lettering divengono via via più accurati e selezionati. Iniziano ad essere condivisi anche numerosi video sottotitolati, visibili in particolare navigando da smartphone, sempre più simili per grafica e contenuti a quelli condivisi dagli altri canali vicini al Renzi ed al PD. Il numero dei contenuti cresce fino a 8-9 post al giorno, quasi sempre foto modificate e infografiche: materiale che richiede una quantità di tempo rilevante per essere editato con una grafica accattivante.

Solo nelle ultime 24 ore la pagina ha pubblicato ben 12 post: si va dall’attacco a Beppe Grillo per le vacanze in yacht, seguite dalle parole di Matteo Richetti sugli ultimi dati sul mercato del lavoro, ed a scorrere fino all’attacco a Virginia Raggi per la sua indisponibilità a dimettersi nel caso di rinvio a giudizio ed alla condivisione di ogni video e diretta postato dal profilo del segretario PD. Chiaramente un carico di lavoro insostenibile per semplici militanti e volontari, per di più considerando lo sforzo economico per promuoverla con sponsorizzazioni e inserzioni su Facebook. A lavorarci, assieme a De Giorgi, sono infatti uno sparuto gruppo di amministratori: tutti fiorentini e tutti saliti sul palco della Leopolda, assicurano voci fondate. Ed i risultati sono evidenti: Matteo Renzi News passa da 7.000 like ad agosto 2016 fino agli attuali 67.559.

Lo stesso De Giorgi ha oggi affrontato l’argomento rispondendo ad un commento su Facebook: “Anche a me imbarazzano alcuni contenuti delle nostre pagine non ufficiali – che non sto gestendo, sia chiaro -, ma credo anche che qualche scivolone ci possa stare e sia tutto sommato anche innocuo, fosse solo che sappiamo bene che il dibattito di queste ultime 24 ore rimane confinato nella bolla della bolla della bolla“. Tuttavia l’ultimo post pubblicato dallo stesso De Giorgi dalla pagina Matteo Renzi News risale ad appena 3 giorni fa: è chiaro l’intento di nascondere il collegamento tra lo staff del premier e la pagina, definita “non ufficiale“.

Ma a cosa serve una fanpage non ufficiale a Matteo Renzi, già ben fornito di organi di informazione – personali e del partito – da cui inviare i propri messaggi? Probabilmente Matteo Renzi News fa parte di una strategia di comunicazione precisa, per riconquistare lo spazio su web, a detta di Renzi lasciato eccessivamente in mano al Movimento 5 Stelle. Una strategia, spiegata sapientemente da Leonardo Bianchi su Vice, basata su tre pilastri: 1) maggiore organizzazione e quantità di messaggi, in particolare video, 2) cambio di registro per una comunicazione basata sull’attacco agli avversari e sul tono urlato e canzonatorio, 3) ricerca di contenuti virali condivisi attraverso una base fidelizzata di contatti. Parte di questo disegno è anche Bob, la nuova piattaforma online del PD che per ora si è concretizzata in un un’app per smartphone ancora acerba. Andrea Coccia su Linkiesta.it scrive bene che “la prossima mossa di comunicazione di Renzi&Co è quella di mutuare il linguaggio e i modi degli odiati grillini per avvicinare il tanto stigmatizzato (quanto inesistente) popolo del web“, come ha scritto anche David Allegranti. In tutto ciò una pagina Facebook non ufficiale diviene preziosa per due motivi: il primo è la capacità di esprimere messaggi – più violenti con gli avversari e maggiormente esaltanti con Renzi e gli altri dirigenti democratici – che i canali ufficiali non si potrebbero permettere (l’accostamento tra Renzi e Totti ha fatto scalpore pubblicata da una pagina non ufficiale, figuriamoci l’avesse fatto il profilo del PD); in secondo luogo è un ottimo modo per testare nuovi stili, temi e linguaggi, verificarne gli effetti e l’eventuale approvazione da parte del pubblico, prima di estenderli ai canali principali. Una strategia, quella di adottare pagine non ufficiali, che il Movimento 5 Stelle non a caso pratica da anni.

Hanno acceso i motori: sarà una lunghissima campagna elettorale, anche online.


Alessio De Giorgi esclude – in un messaggio privato inviatomi che mi ha chiesto di rendere pubblico – di gestire la pagina e di esserne l’amministratore, “quanto meno dal suo punto di vista“. Questo tuttavia non corrisponde a quanto risulta da una verifica incrociata dei fatti. Primo fra tutti, l’account con cui risponde ai commenti (ora cancellati):

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Le bugie del M5s sul reddito di cittadinanza

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 17/05/2017


Se il Movimento 5 Stelle è riuscito ad imporre nel dibattito pubblico nazionale una sua proposta economica questa è certamente il “reddito di cittadinanza”. Depositata da anni in Parlamento, rappresenta la priorità per il movimento fondato da Beppe Grillo, seppur presenti diverse criticità tecniche come sottolineato su Il Foglio da Luciano Capone. Tanto che dal 2015 – per sottolineare la sua valenza francescana– il Movimento organizza una marcia per promuoverlo, di 24 chilometri da Perugia ad Assisi. Marcia che tornerà anche il prossimo 20 maggio: da giorni il Blog sta pubblicizzando l’evento con brevi video come questo, in cui Isabella Adinolfi e Laura Agea – due eurodeputate – affermano: “Da 7 anni l’Europa chiede all’Italia di garantire il reddito di cittadinanza agli italiani che non raggiungono la soglia minima di povertà ma i partiti italiani continuano a ripetere che non si può fare, come se vivessero fuori dal mondo o semplicemente fuori dall’Europa, visto che il reddito di cittadinanza esiste in ben 26 Paesi europei su 28”. Le asserzioni sono tre: 1) il reddito di cittadinanza si applicherebbe solo a chi vive sotto la soglia minima di povertà; 2) l’Unione Europea ha raccomandato all’Italia ed agli altri paesi membri di adottare un reddito di cittadinanza; 3) l’istituto del reddito di cittadinanza è previsto in 26 paesi membri su 28. Verifichiamole una per una.

  1. Un reddito incondizionato garantito a tutti gli individui, senza verifica di requisiti o la richiesta di lavorare”: questo è il reddito di cittadinanza (o reddito di base), come spiega Stefano Toso, professore di scienze delle finanze all’Università di Bologna, nel breve saggio “Reddito di cittadinanza, o reddito minimo?” pubblicato da Il Mulino e recensito su Il Foglio da Andrea Garnero. Per verificarlo basta anche una meno impegnativa visita alla voce su Wikipedia. Ciò che invece il Movimento 5 Stelle chiama reddito di cittadinanza altro non è che un reddito minimo, cioè distribuito successivamente alla prova dei mezzi: prima di tutto una verifica del reddito che non può essere superiore a 600 euro al mese (soglia di povertà relativa dell’Unione Europea per un nucleo famigliare monoreddito), ed inoltre dell’appartenenza alle seguenti categorie: cittadini italiani maggiorenni o stranieri residenti lavoratori in Italia da almeno due anni, e – dai 18 ai 25 anni – il requisito di un diploma superiore. Il reddito minimo proposto dal Movimento propone un’integrazione del reddito famigliare, fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. Il reddito di cittadinanza così inteso dalla comunità scientifica è invece privo di tali condizioni: viene distribuito a tutti, ricchi e poveri, lavoratori e non lavoratori, nella stessa misura. Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle non è dunque un reddito di cittadinanza.
  2. Anche sulle richieste europee le due eurodeputate incorrono nello stesso errore: le istituzioni europee non hanno mai raccomandato l’adozione di un reddito di base agli stati membri, come invece ha più volte affermato il blog di Beppe Grillo nel 2015 e nel 2016 (salvo poi specificare nel testo che in realtà le raccomandazioni sono per un reddito minimo, alimentando ancor più la confusione). Tanto è vero che quando per la prima volta il Parlamento europeo ha avuto la possibilità di prendere in considerazione l’adozione di un reddito di base – all’interno della relazione sulla regolamentazione della robotica di gennaio – la proposta è stata bocciata dalla maggioranza. Il reddito minimo invece viene – questo sì – viene promosso fin dal 1992.
  3. Non è perciò vero nemmeno che il reddito di cittadinanza “esiste in ben 26 paesi europei su 28, come affermano Adinolfi ed Agea: è vero invece che il reddito minimo è diffuso in 26 paesi dell’Unione Europea, a cui presto si potrebbe aggiungere anche l’Italia. Il Parlamento ha infatti approvato una legge delega per introdurre il Reddito di Inclusione, che se andrà a regime in qualche anno potrebbe far recuperare il terreno perso sul contrasto alla povertà. Un provvedimento sul quale – secondo OpenParlamento – otto senatori del Movimento 5 Stelle hanno votato contro, ed i restanti si sono astenuti.

E’ giusto quel che dice Di Maio sul lavoro?

ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’11/05/2017


Ritorna il fact-checking de lavoce.info. Passiamo al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca a Luigi Di Maio e alle sue affermazioni sul mercato del lavoro.

COSA HA DETTO DI MAIO

Da quando è stato approvato il Jobs Act, in corrispondenza della diffusione dei bollettini di Istat, Inps e ministero del Lavoro, si accendono feroci polemiche sull’andamento del mercato del lavoro. Polemizzare su dati mensili inevitabilmente influenzati da oscillazioni temporanee e a volte casuali, non è molto produttivo. Da alcuni mesi, però, l’Istat diffonde l’analisi dei flussi occupazionali per classe d’età al netto dell’effetto demografico, mentre dal 2016 ministero del Lavoro, Inps e Istat producono – finalmente – una nota congiunta trimestrale.
Se poi alle polemiche sui numeri si aggiunge la diffusione di dati e commenti non accurati, il dibattito pubblico non fa progressi, anzi ne soffre. Come accaduto durante l’ultima puntata della trasmissione DiMartedì (La7), durante la quale Luigi Di Maio ha dichiarato (al minuto 45:32): “Abbiamo un paese che in questo momento non se la passa bene: tutti gli indici di […] disoccupazione stanno aumentando, e diminuisce l’occupazione; la disoccupazione giovanile quando diminuisce è perché ci sono giovani che o espatriano o perdono la speranza di trovare lavoro, non che diminuisca perché abbiamo trovato nuovi posti di lavoro”.

I DATI SUL MERCATO DEL LAVORO

Analizziamo dunque la sua dichiarazione alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro diffusi da Istat. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto un picco nel novembre 2014 – quando era al 13 per cento. Da allora si è ridotto fino a scendere all’11,4 per cento a settembre 2015, per poi risalire all’11,7, valore di marzo 2017, per un totale di 105mila disoccupati in più rispetto al settembre 2015. È forse a questa risalita che si riferisce l’onorevole Di Maio.
Il trend del tasso di occupazione è invece più lineare: dopo aver raggiunto un punto di minimo nel settembre 2013 (55 per cento), a marzo 2017 si attesta al 58 per cento, con un aumento degli occupati di quasi 750mila unità. Sono stati così quasi raggiunti i livelli occupazionali pre-crisi, il cui picco è stato registrato ad aprile 2008 con quasi il 59 per cento di occupati. A questi dati vanno aggiunti gli inattivi, in forte calo dal 2011 a oggi, come si vede dalla figura 1.
Nei dati su occupati e inattivi non si trova dunque evidenza delle affermazioni del vicepresidente della Camera.

Fonte: Istat

GIOVANI: SCORAGGIATI E IN FUGA?

Di Maio ha parlato anche di disoccupazione giovanile, affermando che la sua riduzione non è un dato positivo poiché sarebbe il riflesso dell’aumento degli inattivi e degli emigrati.
Dai dati per la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni si osserva una riduzione di 10 punti percentuali della frazione di giovani disoccupati sul totale della forza lavoro, dal 44,1 per cento di marzo 2014 al 34,1 per cento del marzo 2017. Dati precisi sulla “fuga di cervelli” non sono disponibili; i numeri a cui possiamo affidarci sono quelli delle iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) riportati dal “Rapporto sugli italiani all’estero” prodotto annualmente dalla Fondazione Migrantes. L’iscrizione al registro tuttavia non è obbligatoria nel corso del primo anno di permanenza fuori dai confini nazionali e quindi molto probabilmente risulta approssimata per difetto. Sulla base di una simulazione sul 2014 e il 2015, che calcola, rispettivamente, 32mila e 39mila espatri tra i 18 e i 34 anni, non sembra plausibile affermare che la riduzione di disoccupati fra i giovani sia stata completamente assorbita da nuovi inattivi e persone partiti in cerca di fortuna all’estero. Da gennaio 2014 a dicembre 2015, infatti, i disoccupati si sono ridotti di 116mila unità, gli inattivi sono aumentati di 13mila, gli espatriati sono stati circa 71mila, mentre la classe 15-24 anni si è ridotta di 68mila giovani per via dell’effetto demografico. L’affermazione di Di Maio potrebbe essere vera solo assumendo ipotesi piuttosto improbabili: ad esempio nel caso in cui tutti gli espatriati, gli inattivi e metà del calo demografico siano stati disoccupati.
Inoltre, poiché i dati sugli espatri per la fascia d’età tra i 15 e i 24 anni non sono disponibili, stiamo facendo riferimento a dati di espatriati tra i 18 e i 34 anni, di cui i più giovani rappresentano solo una parte. È ragionevole quindi pensare che l’effetto dell’espatrio sulla riduzione di disoccupati e inattivi tra i 15 e i 24 anni sia residuale.

Fonte: Istat
Nota: abbiamo scelto di usare i tassi invece dei valori assoluti a causa dell’effetto demografico che in questa fascia d’età è piuttosto forte.

Forse l’esponente del Movimento 5 Stelle prende in considerazione periodi più brevi? Seppur poco utili all’analisi, che è preferibile svolgere sul medio-lungo periodo, anche i trend congiunturali e tendenziali non sembrano dare ragione al vicepresidente della Camera. L’ultimo bollettino Istat mostra come nel primo trimestre del 2017 gli occupati siano aumentati di 35mila unità rispetto all’ultimo trimestre 2016, mentre disoccupati e inattivi sono diminuiti, rispettivamente di 38mila e 32mila unità. Anche tra i più giovani i risultati non sono in linea con quanto afferma Di Maio: rispetto all’ultimo trimestre i giovani lavoratori sono aumentati di 24mila, i disoccupati ridotti di 72mila e gli inattivi aumentati di 40mila (variazione trimestrale positiva che diventa negativa se però prendiamo in considerazione l’intero anno marzo 2016-marzo2017).
Con la grande recessione e la crisi dell’euro, il mercato del lavoro ha molto sofferto. Dalla fine del 2014 si registra però un miglioramento in quasi tutte le variabili. Miglioramento che tuttavia sta perdendo vigore negli ultimi mesi, soprattutto per i disoccupati. Si tratta quindi di un rallentamento, non di un peggioramento come sostiene Di Maio.

Da parte di un giovane politico che propone, assieme al suo Movimento, di cambiare radicalmente il nostro paese ci si attende una analisi della realtà accurata per poter sviluppare proposte di riforma efficaci. In questo caso, purtroppo, non è avvenuto: la dichiarazione di Di Maio è infatti una BUFALA.

Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi

Le quattro peggiori bufale di Matteo Salvini nel discorso di Capodanno

È stato un 31 dicembre affollato per quanto riguarda i discordi di fine anno. Oltre al classico discorso del Presidente della Repubblica, ed a Beppe Grillo per il quale affiancarsi al Quirinale è ormai una tradizione, quest’anno abbiamo avuto una new entry. Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, armato di telefono ha pronunciato un discorso in diretta Facebook da Bormio dove si trovava presumibilmente in vacanza. Più una risposta a Mattarella che un vero e proprio discorso di Capodanno; risposta a tratti anche molto dura in cui Salvini ha trattato numerosissimi temi in 21 minuti di video, più che lo stesso Mattarella.

Non potevano certo mancare le bufale – o fake news come le chiamano oggi – d’altronde il leader della Lega ha già dimostrato una certa competenza in tema. Andiamo con ordine.

01:08 – (Mattarella) “si è dimenticato di una categoria, quegli italiani che non ci sono più perché sono stati ammazzati sostanzialmente dallo Stato, li ricordo io, l’ultimo un pensionato di 66 anni di Firenze che si è impiccato nella sua azienda due giorni fa perché doveva andare a discutere un debito con Equitalia, di 20 000 euro. Vi ricordate Equitalia? Renzi: <<Cucù, Equitalia non c’è più, l’ho cancellata, basta con queste protervie>>, bene lo Stato – che Mattarella rappresenta perfettamente – continua a strozzinare, a depredare, a derubare chi fa impresa, chi ha un negozio, chi ha una partita IVA, chi si ostina di fare l’artigiano, il primo imprenditore“. Se la notizia del suicidio è tristemente reale, tutto il resto è difficilmente accostabile alla realtà. Equitalia verrà davvero chiusa, non sulla base di vaghe promesse elettorali ma secondo l’ordinamento italiano ed in particolare la legge 225/2016, che ha convertito il decreto legge in materia fiscale firmato da Mattarella il 22 ottobre 2016. Equitalia si trasformerà effettivamente in “Agenzia delle Entrate-riscossione” dal primo luglio 2017 ed i debitori possono usufruire dello sconto fiscale che abolisce le sanzioni e gli interessi di mora sulle cartelle di Equitalia dal 2000 al 2015. Notizia di questi giorni è che già 100 000 cittadini hanno richiesto lo sconto tramite questo modulo. Matteo Salvini farebbe bene a rallegrarsi per l’attuazione di una proposta storica della Lega Nord – per di più da parte di un Governo sostenuto dal centrosinistra – piuttosto che affermare il falso.

02:59 – “Io ricordo che Sergio Mattarella faceva parte di quella Corte Costituzionale che rubò il diritto agli italiani di votare il referendum per cancellare l’infame legge Fornero“. Come poteva mancare l’ “infamelegge Fornero dal discorso di Capodanno di Matteo Salvini? Il segretario leghista parla di “diritto” rubato agli italiani. Tuttavia nella nostra Repubblica parlamentare i diritti dei cittadini sono stabiliti dalla Costituzione, di cui la Corte Costituzionale è il massimo garante. Quella stessa Corte che il 20 gennaio di due anni fa ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo dell’articolo 24 del decreto legge n. 201 del 2011, conosciuto al grande pubblico proprio come Legge Fornero. Questo per via degli effetti della legge in questioni, “collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi di bilancio” per le quali – secondo l’articolo 75 della Costituzione – non sono ammessi referendum. Ma non solo: il quesito proposto dalla Lega di Salvini era anche scritto male secondo la Corte, che ne ha giudicato la “palese carenza di omogeneità”.

12:42 – “In un momento in cui ci sono 4,5 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà, che Mattarella si è dimenticato – guarda caso – di citare, il dovere di chiunque è secondo me di aiutare prima questi italiani in difficoltà, poi tutto il resto del mondo”. Sembra incredibile, ma da queste parole parrebbe che Matteo Salvini abbia cambiato radicalmente la propria posizione sugli immigrati nel corso di qualche secondo e che tutti i residenti in Italia siano da considerare “italiani”. Molto più probabilmente Salvini sta raccontando la terza bufala del video. Infatti Istat nel determinare l’ampiezza del fenomeno della povertà relativa fa riferimento agli individui residenti, nati in Italia o altrove, e non ai cittadini italiani. Se l’istituto di statistica conferma il numero di individui che vivono in condizione di povertà relativa, testimonia anche un’incidenza molto superiore della povertà sulle famiglie straniere rispetto a quelle italiane. “La povertà assoluta risulta contenuta tra le famiglie di soli italiani (4,4 per cento) mentre si attesta su valori molto più elevati tra quelle con componenti stranieri: 14,1 per cento per le miste, 28,3 per cento per le famiglie di soli stranieri; in quest’ultimo caso si passa dal 23,4 per cento del 2014 al 28,3 per cento del 2015”. Proporre la soluzione di favorire gli italiani nell’assistenza sulla base che vi siano 4,5 milioni di residenti sotto la soglia di povertà è pertanto fallace: tra gli stranieri la povertà è un fenomeno decisamente più diffuso che fra gli italiani ed è in crescita sostanziale.

13:20 – “La Buona Scuola – non una parola da Mattarella sulla scuola – una pessima riforma della Scuola […] che costringe gente a girar l’Italia da nord a sud […] per cercare una cattedra lasciando perdere figli e famiglie. Una Buona Scuola invece per quanto mi riguarda permette agli insegnanti di insegnare nella regione in cui sono nati, dove hanno studiato, a cui sono affezionati, a cui sono legati e che amano particolarmente, magari con meno strapotere sindacale e più attenzione ai diritti degli studenti, oltre che dei sindacati e dei sindacalizzati“. Matteo Salvini fa riferimento alla polemica per cui gli insegnanti precari del Sud sarebbero stati deportati nelle regioni del Nord in cambio della stabilizzazione. Polemica che negli ultimi giorni è tornata d’attualità per via dell’accordo fra Ministero dell’Istruzione e sindacati che prevede la possibilità per l’anno scolastico 2017-2018 – in deroga alla Buona Scuola – per gli insegnanti a cui è stato chiesto di insegnare lontano da casa di richiedere di tornarvi. Ma c’è un tema di fondo: al Sud risiede la stragrande maggioranza dei professori assunti dalla Buona Scuola (78 per cento), ma poco più di un terzo degli studenti italiani (37 per cento). Questa discrasia è l’effetto di decenni di riduzione della natalità al Sud e di emigrazione: in meno di 20 anni il Meridione ha perso il 22 per cento della popolazione studentesca, mentre il Centro-Nord ha guadagnato il 14 per cento rispetto all’anno scolastico 1997-1998. Tuttoscuola, un magazine dedicato al mondo dell’Istruzione, pone chiaramente i termini della questione: “Su 40.453 sedi disponibili assegnate con i trasferimenti […] soltanto 14.192 erano nelle regioni del Mezzogiorno […], pari al un terzo del totale”. Come si può pensare quindi che il 30 per cento delle sedi potesse accogliere il 78 per cento degli insegnanti? 14 192 cattedre per 30 692 insegnanti, situazione capovolta rispetto al Centro-Nord dove invece vi era un fabbisogno di quasi 18 000 nuovi insegnanti.

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Una soluzione ci sarebbe stata: riempire di insegnanti le scuole del Sud – anche se non necessari – e coprire le cattedre scoperte nel resto d’Italia con supplenze mensili di precari alle prime esperienze. È questa la Buona Scuola di Salvini? Un progetto di riforma che potrebbe essere apprezzato molto di più da quei “sindacalizzati” che lui demonizza piuttosto che dagli studenti.

Insomma, se Matteo Salvini ambisce ad essere il Trump italiano, almeno per quanto riguarda la post-verità è sulla buona strada.

“Se vince il No, lascio la politica”

O facciamo le riforme o non ha senso che io stia al governo. Se non passa la riforma del Senato, finisce la mia storia politica.”

Non è difficile immaginare chi ha pronunciato queste parole: Matteo Renzi, appena divenuto Presidente del Consiglio in un’intervista al Tg2. Insomma, la personalizzazione è stata da sempre un elemento chiave del Governo Renzi, fin dalla sua nascita.

Oggi tuttavia Renzi sembra essere in contraddizione con le tante parole spese in campagna elettorale riguardo al proprio futuro. Si è dimesso da Presidente del Consiglio, certo, un gesto che in passato in pochi hanno avuto la coerenza di compiere. Ma non ha lasciato la segreteria del Partito Democratico – come invece aveva promesso il primo giugno a Virus – né, pare, tornerà a vita privata abbandonando la politica. Eppure non sono state poche le dichiarazioni in tal senso: almeno sette volte il Presidente del Consiglio dimissionario aveva promesse di smettere di fare politica, qui la lista completa a cura dell’agenza Agi. Promessa ripetuta anche a Il Foglio, nell’intervista del 2 giugno 2016, con il mantra “o cambio l’Italia o cambio mestiere”, preso in prestito dalla campagna elettorale per la conquista del comune di Firenze nel 2008. Uno slogan certamente efficace per un giovane politico outsider, non per un Presidente del Consiglio con un gradimento popolare del 40 per cento.

Ma Renzi non è stato il solo ad aver promesso di dimettersi e tornare a vita privata nel caso di vittoria del No il 4 dicembre. Anche Maria Elena Boschi a “In ½” su Rai 3 a domanda precisa se avrebbe lasciato la scena politica rispose “Sì ovviamente, è un lavoro che abbiamo fatto assieme”. E pure un alto pasdaran renziano, Ernesto Carbone, promise di lasciare la politica in caso di vittoria del No a “L’aria che Tira” su La7.

Ma certo non solo i sostenitori del Sì hanno tradito – per ora – la promessa. La recente storia politica italiana è costellata di esempi: lo stesso Beppe Grillo, prima delle europee del 2014, dichiarò: “Io, se perdiamo le elezioni, non ho assolutamente più voglia di continuare”. Le elezioni le perse sonoramente – 40 per cento a 20 – senza abbandonare la scena politica né la guida del Movimento 5 Stelle. Anche Silvio Berlusconi, oggi nuovamente ago della bilancia della scena politica, dichiarò più volte l’intenzione di “farsi da parte” e lasciare la scena al delfino di turno, per poi – in occasione degli snodi chiave – tornare in campo e rivelarsi ogni volta determinante. Come lui pure Sandro Bondi, che nel 2013 dichiarò ad “Omnibus” che avrebbe smesso con la politica nel caso Silvio Berlusconi fosse stato condannato in via definitiva. Oggi non solo non ha mantenuto fede alla parola data, ma – assieme alla moglie – è passato tra le file della maggioranza al Senato, abbandonando la “musa poetica” Berlusconi.

Non sembra tuttavia un vizio solo italiano: Nicolas Sarkozy, dopo la sconfitta del 2012 contro Hollande, disse “per me si chiude un capitolo, non sarò candidato alle legislative né in future elezioni. State tranquilli rinnoverò la tessera dell’Ump e pagherò la quota, ma non sarò più operativo” salvo poi ripensarci e candidarsi alle primarie del centro-destra francese nel 2016, ottenendo un misero 20 per cento. Nuova disfatta, nuova promessa di farsi da parte e lasciare la politica. Questa volta per davvero?

Non è certo una novità che i politici promettano senza – spesso – tenere fede alle promesse. Già Napoleone ripeteva “Se vuoi avere successo a questo mondo, prometti tutto e non mantenere nulla”. Per qualcuno la formula ha funzionato; solo il tempo ci dirà se anche Matteo Renzi ne beneficerà.

Trump e l’Air Force One

Molto scalpore ha prodotto l’ennesimo tweet di Donald Trump, questa volta riguardo all’annullamento del programma di rinnovamento dell’Air Force One, il parco aerei del Presidente degli Stati Uniti. Un fulmine a ciel sereno, ripreso anche da diversi opinionisti e politici italiani, con particolare riguardo al recente leading finanziario acceso dal Governo italiano per quello che è stato ormai tristemente soprannominato l’ “aereo di Renzi”.

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Un tweet che ha fatto sobbalzare sulla sedia gli amministratori di Boeing, che vinse l’appalto per i nuovi velivoli presidenziali durante il secondo mandato di Obama. Di certo ha sobbalzato il titolo della compagnia americana a Wall Street, che il 6 dicembre ha visto un crollo verticale del suo valore.

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Come spiega nei dettagli il sito politifact.com, la dichiarazione del Presidente Eletto va tuttavia contestualizzata.

Prima di tutto per quanto riguarda il programma. I nuovi modelli ordinati da Barack Obama (secondo la prassi per cui un Presidente non ordina aeroplani che potrebbero essere utilizzati durante il proprio mandato) saranno basati sul Boeing 747-8, in grado di volare più a lungo e consumare meno carburante rispetto agli attuali VC-25, ordinati da Reagan ed inaugurati da Bush senior nel 1990. Quasi trent’anni di utilizzo, al limite della vita attesa; non a caso è ormai complicato trovare pezzi di ricambio per la manutenzione dei due velivoli. Due aerei, proprio così: il Presidente Trump si è infatti dimenticato di citare il “dettaglio” che gli aerei presidenziali ordinati sono due – e non uno solo come appare dalla dichiarazione -, in modo da poterli utilizzare con continuità anche durante la manutenzione.

In secondo luogo, i costi. Il programma Air Force dichiara che le spese, distribuite tra il 2015 ed il 2021, ammonteranno a 2,87 miliardi di dollari. Anche ipotizzando una probabile dilazione ed una conseguente lievitazione dei costi, non si raggiungeranno i “più di 4 miliardi” dichiarati da Trump. In secondo luogo, verranno spalmati in più di 12 anni, nell’arco dei quali il Pentagono arriverà a spendere 8132 miliardi di dollari; la spesa per gli Air Force One rappresenterebbe perciò meno dello 0,05 per cento della spesa destinata alla Difesa.

Il Presidente Eletto non è nuovo a bufale o a dichiarazioni inaspettate via tweet (attraverso cui ha nominato quasi interamente la futura Amministrazione). Saranno quattro anni avvincenti, questo è certo.

Quando Camusso si batteva per la riforma costituzionale

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 21 NOVEMBRE 2016


Il referendum confermativo del 4 dicembre nei giorni scorsi ci ha offerto una nuova polemica social fra il fronte del Sì e quello del No. I fatti: nei giorni scorsi il comitato ufficiale per il Sì, Basta un Sì, pubblica un breve articolo sulla posizione della CGIL – risalente a un paio di anni fa – sulle riforme costituzionali necessarie per l’Italia, espressa nella tesi congressuale di Susanna Camusso. L’obiettivo, chiaro, è voler mostrare una palese contraddizione fra tale posizione e quella assunta più recentemente dal più grande sindacato italiano, marcatamente schiarato sul No. Infatti il comitato del Sì scrive che nel 2014 la CGIL avrebbe auspicato “il superamento del bicameralismo paritario perfetto con l’istituzione di una camera rappresentativa delle regioni e autonomie locali”, “il riordino delle competenze di Stato e Regioni disciplinate dall’articolo 117 nell’ambito della riforma del Titolo V, a competenza esclusiva statale alcune materie di legislazione concorrente rafforzando la funzione regolatrice nazionale” ed infine una “legge nazionale (…) sulla riforma dell’istituto referendario che introduca il ‘quorum mobile’ (legato all’influenza registrata nell’ultima elezione dell’organismo che ha legiferato)”. In effetti tutte modifiche contenute nella riforma costituzionale su cui siamo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre. Al che – il 15 novembre – l’account Twitter della CGIL denuncia una manipolazione del documento, al punto da accusare il comitato del Sì di aver taroccato il testo per farlo apparire più vicino alle proprie posizioni. La convinzione è tale da mettere pubblicamente a confronto le due versioni, come prova provata dell’inganno:

1479741941274Un’accusa grave, quella di aver falsato le fonti per dimostrare in modo fittizio le proprie tesi, che metterebbe in grave imbarazzo – se verificata – il comitato per il Sì. In quanto tale va quindi analizzata nella sua fondatezza.

Zoomando le due immagini a confronto ci si accorge tuttavia della assoluta uguaglianza tra i due documenti, che si differenziano semplicemente per l’impaginazione e la numerazione. Sono due documenti identici, nessun taroccamento. È possibile controllare in prima persona: ecco il documento caricato dal comitato per il Sì e quello della CGIL. Ciò nonostante, vista la durezza del tweet da cui traspare un elevato grado di certezza, è bene andare a fondo e togliersi ogni dubbio. Qui è scaricabile quindi l’intera documentazione conclusiva del XVII congresso del 2014, in cui risultò vincente Camusso: in realtà questo ulteriore documento – nelle parti relative alle riforme costituzionali – appare effettivamente più prolisso e completo, ma non differente nella sostanza. Anche qui ritroviamo, letterali, le proposte sull’abolizione del bicameralismo paritario, l’accentramento delle competenze concorrenti e l’introduzione del “quorum mobile” per i referendum abrogativi. Identiche alle due precedenti versioni. Non solo, il documento differisce da quelli postati su Twitter: sia da quello che la Cgil indica come originale, sia da quello che sarebbe stato taroccato (che, come già scritto, sono identici), i quali probabilmente sono una sintesi rispetto all’originale.

Probabilmente accortisi della buccia di banana, lo stesso account del sindacato qualche ora più tardi ha pubblicato una nuovo foto. Questa volta più recente: si tratta della presa di posizione per il No al referendum, dell’8 settembre scorso. Sintetizzando, una presa di posizione che si esprime in modo favorevole rispetto agli obiettivi della riforma Renzi-Boschi ma non ne condivide le soluzioni concrete individuate. Legittimo, come è legittimo modificare la propria posizione nel corso di due anni: un lasso di tempo enorme in politica. Meno legittimo invece avanzare accuse gravissime senza alcun fondamento. Qualche social media manager avrà probabilmente passato un brutto quarto d’ora.

Cosa c’è davvero nel CETA

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 25 GENNAIO 2017


In queste settimane un nuovo acronimo ha fatto la sua comparsa nella discussione pubblica: il CETA. Si tratta del trattato di libero scambio fra Unione Europea e Canada, letteralmente “Comprehensive Economic and Trade Agreement”. Negoziato dal 2009 e firmato il 30 ottobre da Justin Trudeau – giovane primo ministro del Canada – e da Jean Jack Juncker, rientrata la contrarietà della piccola Vallonia. Gli obiettivi dichiarati sono ambiziosi: abbattere più del 90% dei dazi doganali (oltre che parte delle barriere non doganali) sui 60 miliardi di euro del volume di scambi, incentivare gli investimenti stranieri, liberalizzare i servizi e rafforzare la cooperazione normativa. Una ventata di free trade, dunque: una delle teorie economico-commerciali più longeve già apprezzata dagli economisti classici Adam Smith e David Ricardo. Il libero scambio è una pratica che contribuì in modo significativo durante la seconda metà del XX secolo alla crescita economica mondiale, a partire dal 1949, anno della prima riunione del GATT – l’attuale WTO – nella piccola cittadina francese di Annecy. Allora si procedeva attraverso cosiddetti round multilaterali, cioè turni negoziali grazie a cui i dazi di ogni paese aderente venivano ridotti gradualmente anno dopo anno. Oggi questo meccanismo si è inceppato: l’ultimo round – quello di Doha del 2001 – è fallito dopo ben dieci anni di trattative. Strada obbligata, quindi, per liberalizzare il commercio mondiale sono gli accordi bilaterali, come appunto il CETA ed il fratello maggiore, il famigerato TTIP (seppur ormai abbandonato dopo la vittoria di Trump).

Detto ciò, cerchiamo di capire cosa è contenuto all’interno del CETA. Certo, gli allarmismi sono frequenti: lo strapotere delle multinazionali, gli OGM, la svendita dell’acqua pubblica, la carne contenente gli ormoni della crescita, e si potrebbe continuare per diversi paragrafi. I principali oppositori in Italia fanno riferimento a STOP-TTIP, un agglomerato di diverse associazioni ambientaliste che più volte ha espresso tali preoccupazioni. Vediamo dunque di analizzare il contenuto del trattato, composto da 1598 pagine e 30 capitoli, il cui testo in inglese è scaricabile qui.

È vero che le multinazionali potranno fare causa ad uno Stato rivolgendosi a tribunali privati in caso di mancati profitti?

No, non è vero. Il sistema dell’ISDS – spesso citato dal fronte dei protezionisti – non è infatti rientrato nell’accordo. Di cosa si tratta? In inglese significa “Investor-state dispute settlement”, vale a dire un metodo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato, che nella pratica si esplica nella possibilità per un’azienda di ricorrere contro uno stato firmatario di un accordo di libero scambio con l’obiettivo di ricevere un risarcimento per eventuali violazioni degli accordi, attraverso un arbitrato privato. Tale meccanismo era probabilmente presente nelle prime bozze dell’accordo, ma è stato poi trasformato per richiesta dell’Unione in un meccanismo assai più trasparente e garantista per gli stati. Il capitolo 8 del trattato infatti prevede per questi scopi un tribunale internazionale, non più privato ma composto da 15 membri: 5 nominati dal Canada, 5 nominati dall’Unione Europea e 5 provenienti da paesi terzi. L’articolo 8.28 prevede inoltre la possibilità di ricorso in caso di sentenza non condivisa. Sono state inoltre inserite ulteriori garanzie, quali la trasparenza di ogni atto e la possibilità di assistere alle sedute. Rimangono alcuni dubbi anche tra i sostenitori, ma il meccanismo di protezione degli investimenti privati inserito nel trattato non presenta le caratteristiche dell’ISDS classico.

È vero che il CETA obbligherà a svendere i servizi pubblici a partire dai servizi idrici?

No, non è vero. L’acqua viene addirittura citata nel preambolo, all’articolo 1.9, in cui viene chiaramente specificato che “nulla in questo trattato obbliga una parte a commercializzare l’uso dell’acqua per ogni scopo”.

E’ vero che l’accordo fra Unione Europea e Canada introdurrà sul mercato europeo ed italiano prodotti alimentari OGM e contenenti ormoni della crescita?

Ancora una volta, no. In più di un articolo il trattato riconosce esplicitamente il diritto delle parti di regolamentare gli investimenti “sulla base della protezione della salute pubblica, dell’ambiente, della protezione dei consumatori e della promozione e protezione della ricchezza culturale” (articolo 8.9). Principio ribadito al capitalo 24, questa volta riguardo l’ambiente e la sua preservazione. Perciò nulla cambia in Europa per la commercializzazione di prodotti alimentari OGM e contenenti ormoni, che continueranno ad essere regolamentati secondo le norme europee (in particolare la direttiva 96/22/EC per le carni contenenti ormoni e la direttiva 2001/18/EC riguardo alla possibilità per gli Stati membri di restringere e proibire la coltivazione e la commercializzazione nel loro territorio di prodotti geneticamente modificati).

Nel Trattato di libero scambio fra Canada e Unione Europea c’è in realtà molto altro: a partire dal riconoscimento di alcune specialità agroalimentari europee – utili ad evitare l’italian sounding –, fino alla liberalizzazione degli appalti e dei servizi privati. Ma questa è un’altra storia.