Ma davvero si va in pensione vecchi decrepiti?

ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’ 01/06/2017


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Se Matteo Renzi amministra davvero Matteo Renzi News

Negli ultimi tre giorni si è parlato e scritto moltissimo riguardo ad un fotomontaggio, pubblicato dalla pagina Facebook Matteo Renzi News. Eccolo:

Cattura

I messaggi su Facebook e Twitter sono stati numerosissimi: d’altronde cosa meglio dell’ennesima polemica sui social per combattere la noia del lunedì pomeriggio? Tra i tanti: ne hanno scritto il Corriere.it, Massimo Mantellini su manteblog, il Movimento 5 Stelle sul blog di Grillo e quelli di Submarine qui.

E così una pagina Facebook da 67mila like – un risultato modesto nell’oceano dei social network – ha raggiunto una popolarità insperata. Ma le schermaglie tra renziani imbarazzati e militanti di altri partiti non hanno tardato a comparire, con giustificazioni da parte dei primi sempre molto simili: “Renzi non c’entra“, “si tratta di un gruppo di sostegno“, “non è una pagina ufficiale“, “sono più renziani di Renzi“. Si tratterebbe dunque di una pagina di fan, come ne esistono tante altre.

Ebbene, così non è: la pagina Matteo Renzi News è amministrata da collaboratori stretti dell’ex premier, probabilmente in forma organizzata.

Alla stessa conclusione sono giunti anche Il Fatto Quotidiano e Linkiesta.it, senza tuttavia riuscire a provarlo. A confermare la vicinanza della pagina allo staff di Renzi sono fonti tra chi si è occupato della pagina in passato, che indicano nella figura di Alessio De Giorgi uno dei gestori. De Giorgi, “renziano della prima ora” e fondatore di Gay.it, è stato collaboratore di Matteo Renzi a Palazzo Chigi da maggio dell’anno scorso, per occuparsi di “comunicazione digitale, Internet e social network. Quelli suoi, del premier, non quelli di Palazzo Chigi“, come ha affermato lui stesso in un’intervista a Repubblica di maggio 2016. Proprio qualche mese più tardi la pagina – che aveva il nome di “Matteo Renzi è il nostro Presidente“, fondata nel 2014 – sarebbe passata nelle sue mani, grazie ad uno scambio con i precedenti amministratori. E’ da quel momento, in piena campagna referendaria, che i toni diventano più accesi e gentisti, lo storytelling sul premier più incisivo ed il linguaggio si avvicina prepotentemente allo stile del Movimento 5 Stelle. Compaiono gli incessanti inviti a CONDIVIDERE i post e la grafica ed il lettering divengono via via più accurati e selezionati. Iniziano ad essere condivisi anche numerosi video sottotitolati, visibili in particolare navigando da smartphone, sempre più simili per grafica e contenuti a quelli condivisi dagli altri canali vicini al Renzi ed al PD. Il numero dei contenuti cresce fino a 8-9 post al giorno, quasi sempre foto modificate e infografiche: materiale che richiede una quantità di tempo rilevante per essere editato con una grafica accattivante.

Solo nelle ultime 24 ore la pagina ha pubblicato ben 12 post: si va dall’attacco a Beppe Grillo per le vacanze in yacht, seguite dalle parole di Matteo Richetti sugli ultimi dati sul mercato del lavoro, ed a scorrere fino all’attacco a Virginia Raggi per la sua indisponibilità a dimettersi nel caso di rinvio a giudizio ed alla condivisione di ogni video e diretta postato dal profilo del segretario PD. Chiaramente un carico di lavoro insostenibile per semplici militanti e volontari, per di più considerando lo sforzo economico per promuoverla con sponsorizzazioni e inserzioni su Facebook. A lavorarci, assieme a De Giorgi, sono infatti uno sparuto gruppo di amministratori: tutti fiorentini e tutti saliti sul palco della Leopolda, assicurano voci fondate. Ed i risultati sono evidenti: Matteo Renzi News passa da 7.000 like ad agosto 2016 fino agli attuali 67.559.

Lo stesso De Giorgi ha oggi affrontato l’argomento rispondendo ad un commento su Facebook: “Anche a me imbarazzano alcuni contenuti delle nostre pagine non ufficiali – che non sto gestendo, sia chiaro -, ma credo anche che qualche scivolone ci possa stare e sia tutto sommato anche innocuo, fosse solo che sappiamo bene che il dibattito di queste ultime 24 ore rimane confinato nella bolla della bolla della bolla“. Tuttavia l’ultimo post pubblicato dallo stesso De Giorgi dalla pagina Matteo Renzi News risale ad appena 3 giorni fa: è chiaro l’intento di nascondere il collegamento tra lo staff del premier e la pagina, definita “non ufficiale“.

Ma a cosa serve una fanpage non ufficiale a Matteo Renzi, già ben fornito di organi di informazione – personali e del partito – da cui inviare i propri messaggi? Probabilmente Matteo Renzi News fa parte di una strategia di comunicazione precisa, per riconquistare lo spazio su web, a detta di Renzi lasciato eccessivamente in mano al Movimento 5 Stelle. Una strategia, spiegata sapientemente da Leonardo Bianchi su Vice, basata su tre pilastri: 1) maggiore organizzazione e quantità di messaggi, in particolare video, 2) cambio di registro per una comunicazione basata sull’attacco agli avversari e sul tono urlato e canzonatorio, 3) ricerca di contenuti virali condivisi attraverso una base fidelizzata di contatti. Parte di questo disegno è anche Bob, la nuova piattaforma online del PD che per ora si è concretizzata in un un’app per smartphone ancora acerba. Andrea Coccia su Linkiesta.it scrive bene che “la prossima mossa di comunicazione di Renzi&Co è quella di mutuare il linguaggio e i modi degli odiati grillini per avvicinare il tanto stigmatizzato (quanto inesistente) popolo del web“, come ha scritto anche David Allegranti. In tutto ciò una pagina Facebook non ufficiale diviene preziosa per due motivi: il primo è la capacità di esprimere messaggi – più violenti con gli avversari e maggiormente esaltanti con Renzi e gli altri dirigenti democratici – che i canali ufficiali non si potrebbero permettere (l’accostamento tra Renzi e Totti ha fatto scalpore pubblicata da una pagina non ufficiale, figuriamoci l’avesse fatto il profilo del PD); in secondo luogo è un ottimo modo per testare nuovi stili, temi e linguaggi, verificarne gli effetti e l’eventuale approvazione da parte del pubblico, prima di estenderli ai canali principali. Una strategia, quella di adottare pagine non ufficiali, che il Movimento 5 Stelle non a caso pratica da anni.

Hanno acceso i motori: sarà una lunghissima campagna elettorale, anche online.


Alessio De Giorgi esclude – in un messaggio privato inviatomi che mi ha chiesto di rendere pubblico – di gestire la pagina e di esserne l’amministratore, “quanto meno dal suo punto di vista“. Questo tuttavia non corrisponde a quanto risulta da una verifica incrociata dei fatti. Primo fra tutti, l’account con cui risponde ai commenti (ora cancellati):

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Flixbus invita Matteo Renzi: “Venga a fare un giro sui nostri bus”

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 31/05/2017


Il Foglio ha raggiunto Andrea Incondi, trentunenne amministratore delegato di Flixbus Italia, nelle ore immediatamente successive alle dichiarazioni di Matteo Renzi che testimoniano la solidarietà dell’ex premier all’azienda di trasporti e auspicano un intervento politico a difesa dei valori della concorrenza e del libero mercato. La multinazionale tedesca del trasporto su gomma è infatti nuovamente a rischio nel mercato italiano per via un emendamento presentato dal Partito Democratico alla “manovrina”, come ha ricostruito Luciano Capone su Il Foglio.

Sono felice che Matteo Renzi abbia risposto al nostro appello e mi considero soddisfatto della risposta, dalla quale emerge che la posizione di alcuni singoli esponenti del Partito Democratico non coincide assolutamente con la posizione del partito né tanto meno del suo segretario” esordisce Incondi. “Questo ci rende ottimisti sul fatto che questi vincoli vengano eliminati nel più breve tempo possibile, anche perché la posizione di questi singoli contraddice quella del governo, del MIT e del MISE, l’Antritrust, dell’Autorità dei Regolazione dei Trasporti, del TAR del Lazio con le sentenza che sono emerse ieri, degli oltre sessantamila firmatari della petizione per salvare Flixbus e in generale dell’opinione pubblica e della stampa, che hanno legittimato il modello di Flixbus in Italia. Ora auspichiamo che il PD intervenga per rimuovere questi vincoli che colpiscono soprattutto i giovani, ai quali per sua natura e orientamento dovrebbe prestare più attenzione”.

Il manager ora punta in alto e lancia un nuovo appello a Renzi, che invita a toccare con mano la realtà di Flixbus: “mi piacerebbe incontrare Matteo per raccontargli la nostra storia e di come in questo Paese l’innovazione venga osteggiata dalle corporazioni che spesso trovano una sponda politica. Lo vorrei portare su uno dei nostri autobus, fare un viaggio insieme durante il quale gli posso raccontare come è nato il nostro progetto, i ragazzi che ci lavorano dentro, la visione che abbiamo, tutta questa bellezza che sposa benissimo il pensiero che lui ha sull’Europa, sul futuro, sui giovani, sul digitale, sulla mobilità”.

Non manca invece una stoccata a Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio: “innanzitutto l’emendamento attuale non regolamenta affatto il mercato, ma pone solo dei vincoli ad un’azienda. Siamo favorevoli ad un tavolo dove si parli di mercato, essere gli attori del futuro di questo settore, di come renderlo vicino agli utenti finali. Le parole di Boccia sono una mancanza di rispetto a chi lavora al Ministero dei Trasporti e vanno contro una sentenza del Tar del Lazio che proprio ieri ha dato piena legittimità alle nostre autorizzazioni. Abbiamo cercato di metterci in contatto con i protagonisti di questa vicenda politica, senza tuttavia riuscirci” afferma Incondi. L’amministratore delegato respinge anche le critiche di non pagare le tasse in Italia: “Flixbus Italia è un’azienda completamente italiana, che paga le tasse in questo paese come anche i nostri partner. Non siamo certo noi a voler abbandonare il mercato italiano”.

E’ difficile capire per noi chi ci sia dietro a tutto questo. C’è poca trasparenza, anzi opacità. Ci sono emendamenti approvati durante la notte, non alla luce del sole, di cui nessuno vuole prendersi la paternità. Non siamo contro le lobby, perché non abbiamo nulla da nascondere e perché riteniamo che potrebbero apportare informazioni importanti al decisore” incalza Incondi.

In effetti la regolamentazione delle lobby in Italia stenta ancora, come riporta OpenPolis nel suo rapporto. Eppure i gruppi di pressione sono elementi fisiologici in una democrazia rappresentativa: non a caso nei paesi anglosassoni, ma anche nello stesso Europarlamento, non esiste alcuna accezione negativa nella parola “lobbysta”. In Italia invece, in cui questa attività è ancora coperta da scarsa trasparenza, solleva sospetti e zone d’ombra. Negli ultimi anni sono stati compiuti passi in avanti importanti, in particolare dalla Camera dei Deputati che si è fornita di un regolamento che prevede un albo dei lobbysti, spazi appositi, tesserini e sanzioni per chi non rispetta le regole. La Camera è stata seguita anche dal Ministero dello Sviluppo Economico, che a settembre 2016 ha lanciato il proprio portale. In attesa di una legge quadro per garantire la trasparenza dei processi decisionali ed evitare corto circuiti del sistema, come avvenuto per i due emendamenti anti-Flixbus.

I nuovi voucher sono davvero uguali a quelli che il referendum voleva abolire?

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 29/05/2017


Potrebbe essere davvero la volta buona: non quella prospettata da Renzi ormai tre anni fa con tanto di hashtag, bensì per la caduta del governo Gentiloni; e chissà che al segretario del Partito Democratico non dispiaccia nemmeno in questa seconda accezione. È infatti stato approvato sabato l’emendamento del PD alla “manovrina” in discussione alla Commissione Lavoro della Camera, che introduce una nuova regolamentazione per il lavoro occasionale. Un Libretto Famiglia per le persone fisiche e “PrestO”, acronimo di “Prestazione Occasionale”, per le imprese.
È in particolare Movimento Democratico e Progressista, l’area di Bersani e Speranza che si è scissa dal PD, ad agitare le acque della maggioranza. Roberto Speranza ha scritto su Facebook: “La vicenda voucher ha dell’incredibile! Poche settimane fa il governo li ha aboliti, dopo che la CGIL aveva raccolto oltre 1 milione di firme per cancellarli e dopo che era stato indetto il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione. […] Ora la stessa mano che li ha cancellati decide sostanzialmente di ripristinarli, senza neanche cercare la condivisione delle associazioni dei lavoratori. Hanno cambiato il loro nome, ma la precarietà che portano è rimasta la stessa.” Anche Giuseppe Civati, ex PD di più lungo corso, ha twittato tagliente: “Oggi è il giorno previsto per il referendum sui voucher. Il referendum non c’è, in compenso tornano i voucher. Tutto molto costituzionale” fino ad arrivare con un nuovo messaggio successivo ad accusare la maggioranza del più grande “sabotaggio referendario”.

A leggere questi messaggi ci si attenderebbe che il nuovo emendamento presentato dal Partito Democratico non sia altro che una legge-copia-incolla rispetto alla normativa sui voucher abolita definitivamente solo il 20 aprile scorso proprio per evitare il referendum indetto dalla CGIL. Ed invece – come spesso accade nel dibattito politico italiano – la narrazione disegna una verità indotta che poco ha a che fare con la realtà dei fatti. Verificarlo è semplice: è sufficiente confrontare il nuovo testo provvisorio approvato sabato in commissione Lavoro con la precedente normativa sui voucher.

CHI PUO’ UTILIZZARLI?

La platea degli ex voucher comprendeva sia le famiglie e le persone fisiche che le imprese operanti in tutti i settori (al di fuori delle società che appaltano servizi). I loro eredi saranno invece accessibili alle persone fisiche, mediante il Libretto Famiglia – che potranno retribuire esclusivamente piccoli lavori domestici, l’assistenza domiciliare a bambini, anziani e disabili e l’insegnamento privato supplementare – ed alle imprese con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato, grazie a PrestO. È escluso l’utilizzo per le aziende del settore edilizio e minerario e nell’esecuzione di appalti. L’impresa non potrà inoltre retribuire con il nuovo mini-contratto un lavoratore con il quale abbia avuto un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione negli ultimi 6 mesi.

CON QUALI LIMITI?

I voucher ormai aboliti non prevedevano alcun limite economico per i datori di lavoro, mentre i lavoratori non potevano superare i 7000 euro di retribuzione netta per lavoro occasionale nell’arco di un anno ed i 2000 euro da un singolo committente. Le nuove norme prevedono limiti più stringenti: 5000 euro l’anno per i datori di lavoro e per i lavoratori, i quali non potranno però riceverne più della metà dallo stesso committente. È anche previsto il limite orario massimo di 280 ore all’anno per ogni lavoratore occasionale e di quattro ore giornaliere per i lavoratori retribuiti dalle imprese tramite PrestO.

QUALI GARANZIE?

I voucher non prevedevano alcun tipo di garanzia oltre alla copertura Inail per infortuni (70 centesimi ogni buono da 10 euro) e quella previdenziale (1,30 euro a buono); così il voucher partendo da un valore lordo di 10 euro scendeva a 7,50 euro al netto della tassazione. Le nuove misure prevedono invece non meglio specificati riposi giornalieri, pause e risposi settimanali. Sono inoltre garantite coperture per infortuni e previdenziale, per un valore netto di 10 euro (9 per PrestO) dal valore lordo di 12 euro.

COME ACQUISTARLI?

Se i voucher potevano essere acquistati online, in tabaccheria, presso alcune banche ed agli uffici postali, ed erano utilizzabili solo una volta attivati telematicamente con un sms un’ora prima dell’inizio della prestazione, i nuovi funzioneranno differentemente per famiglie ed imprese. Le prime avranno una carta prepagata, ricaricabile sul sito Inps, con cui poter retribuire i prestatori di lavoro occasione; sarà inoltre necessaria la comunicazione telematica dei dettagli della prestazione entro il terzo giorno del mese successivo allo svolgimento della prestazione. Le imprese invece dovranno trasmettere almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione i dettagli della prestazione e le ore lavorate, che non potranno superare le quattro ore a giornata. Se la prestazione non avrà luogo, entro tre giorni il datore sarà obbligato a revocare la dichiarazione. In particolare quest’ultima possibilità viene criticata per la possibilità offerta all’imprenditore di evadere il fisco e pagare il nero il lavoratore nel caso in cui non fossero effettuati controlli nei tre giorni successivi alla prestazione.

QUALI SANZIONI PER CHI SGARRA?

Rimane invece sostanzialmente invariata la normativa sulle sanzioni per chi supera i limiti orari ed economici previsti dalla legge. In tal caso è prevista la trasformazione del rapporto di lavoro occasionale in contratto a tempo indeterminato, con applicazione di ulteriori sanzioni civili ed amministrative.

Già a una prima lettura i due schemi normativi appaiono differenti. I nuovi rapporti di lavoro occasionale assomigliano alle prime versioni dei voucher, prima che venissero liberalizzati quasi completamente da governi sostenuti da centrodestra e centrosinistra. Non si comprende dunque la preoccupazione da parte delle forze più a sinistra della maggioranza. A meno che le motivazioni per staccare la spina al Governo – sotto sotto – non siano altre.

Se per Renzi il buco dell’Etruria è poca cosa

ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO IL 25/05/2017


Ritorna il fact-checking de lavoce.info. Passiamo al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca a Matteo Renzi e alle sue dichiarazioni sulle perdite di Banca Etruria.

Le bugie del M5s sul reddito di cittadinanza

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 17/05/2017


Se il Movimento 5 Stelle è riuscito ad imporre nel dibattito pubblico nazionale una sua proposta economica questa è certamente il “reddito di cittadinanza”. Depositata da anni in Parlamento, rappresenta la priorità per il movimento fondato da Beppe Grillo, seppur presenti diverse criticità tecniche come sottolineato su Il Foglio da Luciano Capone. Tanto che dal 2015 – per sottolineare la sua valenza francescana– il Movimento organizza una marcia per promuoverlo, di 24 chilometri da Perugia ad Assisi. Marcia che tornerà anche il prossimo 20 maggio: da giorni il Blog sta pubblicizzando l’evento con brevi video come questo, in cui Isabella Adinolfi e Laura Agea – due eurodeputate – affermano: “Da 7 anni l’Europa chiede all’Italia di garantire il reddito di cittadinanza agli italiani che non raggiungono la soglia minima di povertà ma i partiti italiani continuano a ripetere che non si può fare, come se vivessero fuori dal mondo o semplicemente fuori dall’Europa, visto che il reddito di cittadinanza esiste in ben 26 Paesi europei su 28”. Le asserzioni sono tre: 1) il reddito di cittadinanza si applicherebbe solo a chi vive sotto la soglia minima di povertà; 2) l’Unione Europea ha raccomandato all’Italia ed agli altri paesi membri di adottare un reddito di cittadinanza; 3) l’istituto del reddito di cittadinanza è previsto in 26 paesi membri su 28. Verifichiamole una per una.

  1. Un reddito incondizionato garantito a tutti gli individui, senza verifica di requisiti o la richiesta di lavorare”: questo è il reddito di cittadinanza (o reddito di base), come spiega Stefano Toso, professore di scienze delle finanze all’Università di Bologna, nel breve saggio “Reddito di cittadinanza, o reddito minimo?” pubblicato da Il Mulino e recensito su Il Foglio da Andrea Garnero. Per verificarlo basta anche una meno impegnativa visita alla voce su Wikipedia. Ciò che invece il Movimento 5 Stelle chiama reddito di cittadinanza altro non è che un reddito minimo, cioè distribuito successivamente alla prova dei mezzi: prima di tutto una verifica del reddito che non può essere superiore a 600 euro al mese (soglia di povertà relativa dell’Unione Europea per un nucleo famigliare monoreddito), ed inoltre dell’appartenenza alle seguenti categorie: cittadini italiani maggiorenni o stranieri residenti lavoratori in Italia da almeno due anni, e – dai 18 ai 25 anni – il requisito di un diploma superiore. Il reddito minimo proposto dal Movimento propone un’integrazione del reddito famigliare, fino al raggiungimento della soglia di povertà relativa. Il reddito di cittadinanza così inteso dalla comunità scientifica è invece privo di tali condizioni: viene distribuito a tutti, ricchi e poveri, lavoratori e non lavoratori, nella stessa misura. Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle non è dunque un reddito di cittadinanza.
  2. Anche sulle richieste europee le due eurodeputate incorrono nello stesso errore: le istituzioni europee non hanno mai raccomandato l’adozione di un reddito di base agli stati membri, come invece ha più volte affermato il blog di Beppe Grillo nel 2015 e nel 2016 (salvo poi specificare nel testo che in realtà le raccomandazioni sono per un reddito minimo, alimentando ancor più la confusione). Tanto è vero che quando per la prima volta il Parlamento europeo ha avuto la possibilità di prendere in considerazione l’adozione di un reddito di base – all’interno della relazione sulla regolamentazione della robotica di gennaio – la proposta è stata bocciata dalla maggioranza. Il reddito minimo invece viene – questo sì – viene promosso fin dal 1992.
  3. Non è perciò vero nemmeno che il reddito di cittadinanza “esiste in ben 26 paesi europei su 28, come affermano Adinolfi ed Agea: è vero invece che il reddito minimo è diffuso in 26 paesi dell’Unione Europea, a cui presto si potrebbe aggiungere anche l’Italia. Il Parlamento ha infatti approvato una legge delega per introdurre il Reddito di Inclusione, che se andrà a regime in qualche anno potrebbe far recuperare il terreno perso sul contrasto alla povertà. Un provvedimento sul quale – secondo OpenParlamento – otto senatori del Movimento 5 Stelle hanno votato contro, ed i restanti si sono astenuti.

E’ giusto quel che dice Di Maio sul lavoro?

ARTICOLO PUBBLICATO SU LAVOCE.INFO L’11/05/2017


Ritorna il fact-checking de lavoce.info. Passiamo al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca a Luigi Di Maio e alle sue affermazioni sul mercato del lavoro.

COSA HA DETTO DI MAIO

Da quando è stato approvato il Jobs Act, in corrispondenza della diffusione dei bollettini di Istat, Inps e ministero del Lavoro, si accendono feroci polemiche sull’andamento del mercato del lavoro. Polemizzare su dati mensili inevitabilmente influenzati da oscillazioni temporanee e a volte casuali, non è molto produttivo. Da alcuni mesi, però, l’Istat diffonde l’analisi dei flussi occupazionali per classe d’età al netto dell’effetto demografico, mentre dal 2016 ministero del Lavoro, Inps e Istat producono – finalmente – una nota congiunta trimestrale.
Se poi alle polemiche sui numeri si aggiunge la diffusione di dati e commenti non accurati, il dibattito pubblico non fa progressi, anzi ne soffre. Come accaduto durante l’ultima puntata della trasmissione DiMartedì (La7), durante la quale Luigi Di Maio ha dichiarato (al minuto 45:32): “Abbiamo un paese che in questo momento non se la passa bene: tutti gli indici di […] disoccupazione stanno aumentando, e diminuisce l’occupazione; la disoccupazione giovanile quando diminuisce è perché ci sono giovani che o espatriano o perdono la speranza di trovare lavoro, non che diminuisca perché abbiamo trovato nuovi posti di lavoro”.

I DATI SUL MERCATO DEL LAVORO

Analizziamo dunque la sua dichiarazione alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro diffusi da Istat. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto un picco nel novembre 2014 – quando era al 13 per cento. Da allora si è ridotto fino a scendere all’11,4 per cento a settembre 2015, per poi risalire all’11,7, valore di marzo 2017, per un totale di 105mila disoccupati in più rispetto al settembre 2015. È forse a questa risalita che si riferisce l’onorevole Di Maio.
Il trend del tasso di occupazione è invece più lineare: dopo aver raggiunto un punto di minimo nel settembre 2013 (55 per cento), a marzo 2017 si attesta al 58 per cento, con un aumento degli occupati di quasi 750mila unità. Sono stati così quasi raggiunti i livelli occupazionali pre-crisi, il cui picco è stato registrato ad aprile 2008 con quasi il 59 per cento di occupati. A questi dati vanno aggiunti gli inattivi, in forte calo dal 2011 a oggi, come si vede dalla figura 1.
Nei dati su occupati e inattivi non si trova dunque evidenza delle affermazioni del vicepresidente della Camera.

Fonte: Istat

GIOVANI: SCORAGGIATI E IN FUGA?

Di Maio ha parlato anche di disoccupazione giovanile, affermando che la sua riduzione non è un dato positivo poiché sarebbe il riflesso dell’aumento degli inattivi e degli emigrati.
Dai dati per la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni si osserva una riduzione di 10 punti percentuali della frazione di giovani disoccupati sul totale della forza lavoro, dal 44,1 per cento di marzo 2014 al 34,1 per cento del marzo 2017. Dati precisi sulla “fuga di cervelli” non sono disponibili; i numeri a cui possiamo affidarci sono quelli delle iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) riportati dal “Rapporto sugli italiani all’estero” prodotto annualmente dalla Fondazione Migrantes. L’iscrizione al registro tuttavia non è obbligatoria nel corso del primo anno di permanenza fuori dai confini nazionali e quindi molto probabilmente risulta approssimata per difetto. Sulla base di una simulazione sul 2014 e il 2015, che calcola, rispettivamente, 32mila e 39mila espatri tra i 18 e i 34 anni, non sembra plausibile affermare che la riduzione di disoccupati fra i giovani sia stata completamente assorbita da nuovi inattivi e persone partiti in cerca di fortuna all’estero. Da gennaio 2014 a dicembre 2015, infatti, i disoccupati si sono ridotti di 116mila unità, gli inattivi sono aumentati di 13mila, gli espatriati sono stati circa 71mila, mentre la classe 15-24 anni si è ridotta di 68mila giovani per via dell’effetto demografico. L’affermazione di Di Maio potrebbe essere vera solo assumendo ipotesi piuttosto improbabili: ad esempio nel caso in cui tutti gli espatriati, gli inattivi e metà del calo demografico siano stati disoccupati.
Inoltre, poiché i dati sugli espatri per la fascia d’età tra i 15 e i 24 anni non sono disponibili, stiamo facendo riferimento a dati di espatriati tra i 18 e i 34 anni, di cui i più giovani rappresentano solo una parte. È ragionevole quindi pensare che l’effetto dell’espatrio sulla riduzione di disoccupati e inattivi tra i 15 e i 24 anni sia residuale.

Fonte: Istat
Nota: abbiamo scelto di usare i tassi invece dei valori assoluti a causa dell’effetto demografico che in questa fascia d’età è piuttosto forte.

Forse l’esponente del Movimento 5 Stelle prende in considerazione periodi più brevi? Seppur poco utili all’analisi, che è preferibile svolgere sul medio-lungo periodo, anche i trend congiunturali e tendenziali non sembrano dare ragione al vicepresidente della Camera. L’ultimo bollettino Istat mostra come nel primo trimestre del 2017 gli occupati siano aumentati di 35mila unità rispetto all’ultimo trimestre 2016, mentre disoccupati e inattivi sono diminuiti, rispettivamente di 38mila e 32mila unità. Anche tra i più giovani i risultati non sono in linea con quanto afferma Di Maio: rispetto all’ultimo trimestre i giovani lavoratori sono aumentati di 24mila, i disoccupati ridotti di 72mila e gli inattivi aumentati di 40mila (variazione trimestrale positiva che diventa negativa se però prendiamo in considerazione l’intero anno marzo 2016-marzo2017).
Con la grande recessione e la crisi dell’euro, il mercato del lavoro ha molto sofferto. Dalla fine del 2014 si registra però un miglioramento in quasi tutte le variabili. Miglioramento che tuttavia sta perdendo vigore negli ultimi mesi, soprattutto per i disoccupati. Si tratta quindi di un rallentamento, non di un peggioramento come sostiene Di Maio.

Da parte di un giovane politico che propone, assieme al suo Movimento, di cambiare radicalmente il nostro paese ci si attende una analisi della realtà accurata per poter sviluppare proposte di riforma efficaci. In questo caso, purtroppo, non è avvenuto: la dichiarazione di Di Maio è infatti una BUFALA.

Articolo scritto assieme a Mariasole Lisciandro e Gabriele Guzzi

Dopo 804 giorni cosa è rimasto del DDL Concorrenza

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 05/05/2017


Nell’arco di 804 giorni le nostre vite possono essere stravolte: si tratta di un periodo di tempo considerevole. Ancor più lo è in politica, sempre più fluida e repentina. Il disegno di legge Concorrenza è in discussione in Parlamento dal 20 febbraio 2015 – 804 giorni fa, appunto –, quando è stato approvato dal Consiglio dei Ministri. Un’era politica fa: al Ministero dello Sviluppo Economico sedeva ancora Federica Guidi.

Da allora Camera e Senato hanno approvato due volte il testo, ed ora la parola tornerà a Montecitorio. In due passaggi parlamentari gli articoli sono aumentati dai 32 del testo del Governo ai 74 attuali. Proprio questa, assieme ad altre, è una delle motivazioni che allarmano periodicamente economisti ed addetti ai lavori sulla bontà di un provvedimento che si dà l’obiettivo di liberalizzare mercati chiave per l’Italia. L’ultima polemica – rilanciata anche il garante della privacy Antonello Soro – riguarda la liberalizzazione selvaggia del telemarketing, per via dell’eliminazione del requisito del consenso preventivo per le chiamate promozionali prevista nel DDL.

Certo è che in più di due anni di discussione e votazioni le modifiche sono innumerevoli: più di 200 emendamenti sono stati approvati tra Camera e Senato. Sarà riuscito il Parlamento a resistere alle lusinghe di lobby e gruppi di interesse? Come aveva promesso roboante l’allora Presidente del Consiglio, secondo cui questo disegno di legge “incontrerà in Parlamento le resistenze delle lobby, e noi le sfideremo”. Non della stessa opinione Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, che nel dicembre scorso dichiarò: “Sembra che il DDL per la concorrenza si sia trasformato in qualcos’altro e forse questo una riflessione la deve porre”. Ecco dunque, tema per tema, una verifica di cosa è cambiato dalla versione originale, in meglio ed in peggio per i consumatori.

1. RC AUTO

Il mercato delle agenzie assicurative sull’autoveicolo occupa una parte considerevole del disegno di legge governativo, dall’articolo 2 al 14. La prima versione conteneva la possibilità di ottenere sconti dalle agenzie a fronte dell’installazione di scatole nere e misuratori del tasso alcolico sui veicoli e misure, piuttosto generali, per garantire una maggiore correlazione del premio assicurativo con la classe di merito assegnata al cliente assicurato.

Questa prima parte dell’articolato in realtà non ha ricevuto modifiche significative nel corso della discussione in Parlamento. Il cambiamento più importante è la migliore precisazione sugli sconti dovuti dalle compagnie assicurative agli automobilisti virtuosi – chi cioè non causa incidenti da almeno quattro anni – che vivono nelle province in cui la frequenza di incidenti stradali è maggiore. C’è chi si lamenta dell’eccessiva discrezionalità lasciata alle agenzie nella determinazione degli sconti, come Il Fatto Quotidiano: tuttavia una più precisa indicazione avrebbe rischiato di sostituire il mercato nella politica di prezzo. Niente di più anti-concorrenziale.

2. BANCHE

Il DDL prevedeva un motore di ricerca indipendente dei servizi bancari offerti, con particolare riguardo alle carte di pagamento, per consentire un confronto rapido ed imparziale ai clienti. Nulla di significativo è cambiato dalla prima versione.

3. COMUNICAZIONI

Sul settore delle comunicazioni, con gli articoli 16, 17 e 23, il DDL Guidi-Renzi eliminava i vincoli ed imponeva maggiore trasparenza sulle penali per il cambio di gestore telefonico, fisso e mobile, e degli abbonamenti televisivi. Prevedeva inoltre l’eliminazione dei costi eccessivi pert le chiamate ai numeri verde delle società bancarie e di gestione di carte di credito, da parte degli utenti.

Da allora il Parlamento ha introdotto la possibilità di pagare biglietti teatrali e del cinema tramite le Sim dei nostri smartphone e previsto un registro delle opposizioni anche contro l’invio di pubblicità indesiderata tramite posta. Non è mancata tuttavia una polemica per un emendamento approvato che avrebbe introdotto la possibilità di far pagare agli utenti le spese di recesso e trasferimento ad altro operatore, differentemente dal decreto Bersani del 2007 che vietò ogni pagamento per il recesso da un operatore.

4. POSTE

Poste Italiane non avrà più il monopolio dell’invio ai cittadini delle multe e delle notifiche giudiziarie. Questo prevedeva il DDL Concorrenza, prima che la Camera posticipasse il provvedimento al 10 giugno 2017 ed il Senato di ulteriori tre mesi. Si tratta in realtà di semplici accorgimenti tecnici dovuti al ritardo nell’approvazione della legge.

5. FORNITURA DI GAS ED ENERGIA ELETTRICA

Su gas ed energia elettrica il Governo proponeva di ridurre progressivamente, fino all’abolizione definitiva a luglio 2018, il regime di maggior tutela per aprire il mercato dell’energia all’intera platea di consumatori. Il Senato ha successivamente modificato la norma, posticipando la novità a luglio 2019, sul modello di quanto accaduto per il monopolio di Poste.

6. AVVOCATI

Buona parte del disegno di legge di iniziativa governativa trattava di professionisti, in particolare avvocati e notai. Per incentivare la concorrenza nella classe forense, con l’obiettivo di ridurre le parcelle ed eliminare rendite di posizione, si è proposto di abrogare l’obbligo di tenere domicilio professionale presso la sede dell’associazione di avvocati di cui si fa parte e si è aperta la possibilità anche per non iscritti all’albo di entrare nel capitale sociale.  Il governo aveva previsto inoltre l’obbligo di presentare un preventivo della parcella prima dell’avvio della collaborazione e – pezzo forte presentato da Renzi – la possibilità di certificare la compravendita di immobili non ad uso abitativo di valore catastale inferiore ai 100.000 euro davanti ad un avvocato e non più ad un notaio.

Novità tuttavia in parte rientrate nei passaggi parlamentari: gli avvocati non potranno certificare l’acquisto (e le successive azioni giuridiche) per gli immobili non ad uso abitativo e l’ingresso di capitali esterni nelle associazioni forensi non dovrà superare un terzo del totale, garantendo il controllo dei due terzi agli iscritti all’albo degli avvocati.

7. NOTAI

Anche sui notai le novità a favore del mercato e dei consumatori erano molte: erano stati ridefiniti i criteri della distribuzione geografica, allargandoli dall’area di competenze delle Costi d’Appello alle regioni, ed eliminato il reddito minimo di 50.000 euro annuo. Introdotta inoltre la possibilità di aprire una società a responsabilità limitata (Srl) con una semplice scrittura privata, mantenendo tuttavia l’obbligo di registrazione presso il registro delle imprese.

Proprio quest’ultima novità è saltata in Commissione Industria al Senato, su segnalazione della Procura Nazionale Antimafia, preoccupata della tracciabilità degli atti utile contro le attività della criminalità organizzata ed il riciclaggio di denaro.

8. FONDI PENSIONE

L’articolo 15 del primo articolato prevedeva la portabilità completa tra i vari fondi pensionistici complementari e l’impossibilità di deroghe contrarie inserite nei contratti nazionali.

Novità saltata in parte, per la quota del datore di lavoro la cui portabilità continuerà ad essere a discrezione degli accordi sindacali.

9. FARMACIE

Anche sulle farmacie lo sforzo dell’allora Governo era stato deciso: veniva rimosso il limite massimo delle quattro licenze in capo ad un unico soggetto, per consentire benefiche economie di scala. Era inoltre consentito l’ingresso di soci di capitali alla titolarità delle farmacie.

Una misura dimezzata dal Senato che – per evitare distorsioni – ha imposto un tetto regionale del 20 per cento oltre il quale il controllo delle farmacie in mano a società di capitali non potrà spingersi. Non è stato inoltre approvato l’emendamento presentato da Scelta Civica alla Camera per la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, oggi venduti solo nelle strutture farmacistiche.

10. ALTRO

Il Parlamento oltre alla modifica degli articoli scritti dal Governo si è dedicato anche all’introduzione di alcune novità: prima fra tutte l’abolizione del parity rate, vale a dire la possibilità per gli alberghi di offrire tariffe più basse rispetto a quelle proposte da Booking.com e altri intermediari online, un tema caro anche alla Commissione Europea. È stata inoltre inserita una delega legislativa di dodici mesi entro i quali il Governo è chiamato a riordinare il tema scottante delle norme sugli autoservizi pubblici non di linea, quindi Ncc ed Uber.

Secondo Salvatore Tomaselli, sentito da Il Foglio in quanto relatore del testo, “non ci sono stati condizionamenti impropri da parte di associazioni di categoria e lobby. Abbiamo ascoltato tutti nelle audizioni in Commissione, alla luce del sole.” Attribuisce invece i ritardi nell’approvazione del testo alla politica, in particolare ai “cambi di ministri ed alle scadenze elettorali”. È la politica che deve essere in grado di fare sintesi fra posizioni ed interessi contrapposti, – afferma Tomaselli – ed in questo senso il percorso del DDL Concorrenza è stato faticoso”. E cosa ancora manca nel DDL? “Se devo indicare due temi su cui ho auspicato che si possa fare di più e sui quali credo che il dibattito sia maturo al giorno d’oggi sono la regolamentazione delle lobby e la regolamentazione della sharing economy”. Alla Camera l’onere di approvare in fretta il disegno di legge, per non avere – dopo il governo – anche la legge dai “mille giorni”.

Alitalia è davvero indispensabile?

ARTICOLO PUBBLICO SU LAVOCE.INFO IL 03/05/2017


LE PAROLE DEL MINISTRO CALENDA

Flixbus è salva

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 25/04/2017


Flixbus è salva: il governo ha ufficializzato la decisione di stralciare la norma inserita nel Milleproroghe che, se confermata, avrebbe estromesso l’azienda dal mercato italiano dei trasporti. Nelle concitate ore immediatamente precedenti alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri dell’undici aprile scorso, Il Foglio ha raggiunto Andrea Incondi, managing director di Flixbus Italia.

Da quando siamo sbarcati sul mercato italiano abbiamo permesso ad oltre tre milioni e mezzo di passeggeri di viaggiare ad un prezzo sostenibile, collegando oltre cento città di zone anche remote e non raggiunte dalla mobilità tradizionale” ricorda il manager. Non solo: “il nostro modello aziendale ha permesso a cinquanta aziende italiane di inserirsi nell’altrimenti inarrivabile mercato della media e lunga percorrenza, popolato da colossi del low cost come Italo e Ryanair”. Tutto ciò è reso possibile dall’innovativa piattaforma di e-commerce offerta da Flixbus alle aziende che decidono di affiliarsi – perlopiù piccoli e medi operatori del settore. Gli standard da garantire per entrare a far parte del circuito sono piuttosto elevati, sia dal punto di vista della sicurezza che del comfort: i bus devono essere dotati di wifi, prese elettriche, sedili reclinabili e avvolgenti, in caso di tratte notturne. Flixbus si occupa della brandizzazione dei mezzi, svolge approfondite analisi di mercato e, soprattutto, stabilisce i prezzi basandosi sul principio domanda/offerta. Tutte caratteristiche assai gradite agli utenti ma che evidentemente hanno fatto storcere il naso a qualche competitor.

Incondi ne fa una questione di principio: “non solo l’emendamento al Milleproroghe è chiaramente un provvedimento contra aziendam ma lede il principio di libera concorrenza e dimostra come in questo Paese l’attrattività per gli investitori sia un valore che rischia di essere messo in discussione letteralmente in qualsiasi momento”. Incondi racconta della fatica incontrata per spiegare alla casa madre quanto accaduto in Parlamento: “erano semplicemente increduli. Abbiamo dovuto spiegar loro che solo in Italia, tra i venti paesi in cui operiamo, si entra in un mercato con regole chiare e ben definite, e basta un semplice blitz dell’ultimo minuto per mettere in discussione un intero modello di business”. “La concorrenza” spiega Incondi “spinge il mercato verso l’innovazione e il miglioramento, non dovrebbe essere qualcosa da temere”.

È quello che, con altre parole, hanno affermato sia l’Antitrust che l’Autorità di Regolazione dei Trasporti. Il primo, per bocca del suo presidente Giovanni Pitruzzella, ha chiesto al Parlamento di eliminare l’emendamento definendolo «una norma che impedisce a un operatore particolarmente dinamico e competitivo lo svolgimento della propria attività», e riconoscendo come «la diffusione di piattaforme e l’ingresso nel mercato italiano di nuovi operatori nazionali e stranieri hanno delineato un contesto competitivo molto vivace e sfidante».

L’ART, competente per la regolazione dei trasporti e delle infrastrutture, il quattro aprile scorso ha trasmesso al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti un parere nel quale chiede di favorire l’offerta di nuovi servizi nel trasporto di linea su autobus a media e lunga percorrenza, affermando che «il mercato si è ampliato con l’ingresso di operatori connotati da una struttura aziendale innovativa. Al contempo l’entrata dei nuovi attori ha indotto i principali incumbent ad innovare il loro modello di business». L’ART sottolinea inoltre che «la disposizione contenuta nel c.d. “Decreto Milleproroghe”, che limita ad alcune specifiche forme di associazione temporanea d’impresa le aggregazioni alle quali è consentito richiedere l’autorizzazione a svolgere trasporto di linea, costituisce un vincolo nell’accesso al mercato per gli operatori – che fino ad oggi hanno operato associati, in forma diversa rispetto a quanto previsto dalla nuova norma introdotta col “Decreto Milleproroghe” – a danno di un’offerta di servizi adeguata alle esigenze di mobilità degli utenti».

La petizione lanciata su Change.org dal magazine Strade per salvare Flixbus aveva già raccolto oltre sessantamila firme tra cui quelle di Oscar Giannino, Pierluigi Battista e Alberto Mingardi. Ma soprattutto decine di migliaia di semplici cittadini convinti che garantire la libera concorrenza sia un bene per la collettività. Per questo Incondi oggi parla del salvataggio di Flixbus non come “la vittoria di uno, ma di tutti: di tutte le aziende che lavorano ogni giorno al nostro fianco; della concorrenza, grazie a cui gli italiani continueranno a poter decidere come viaggiare; di chiunque voglia scegliere di investire in Italia, perché si è finalmente dato un segnale sulla certezza delle leggi”.

Articolo scritto assieme ad Antonio Grizzuti