La riforma costituzionale fa bene anche alle nostre tasche? La verifica del fact checking

ARTICOLO PUBBLICATO SU IL FOGLIO IL 4 OTTOBRE 2016.


Al 4 dicembre mancano ormai meno di due mesi e il dibattito sugli effetti della riforma costituzionale rimane in primo piano. Molto si è discusso ad esempio dei risparmi attesi nel caso al referendum prevalesse il Sì. Il Governo, così come il Comitato nazionale del Sì, ha annunciato 500 milioni di tagli, mentre il comitato del No – citando un parere della Ragioneria dello Stato per la verità mai reso pubblico – si ostina a ribattere che i numeri sono molto più esigui: solo 57,7 milioni di euro.

Ma cosa ci dicono i fatti? Il taglio dei costi non è certo il punto centrale del testo di riforma costituzionale ma – si sa – i fact checker hanno un debole per i numeri e, ancor più, per la verità. Cerchiamo quindi di valutare, per ogni voce di spesa, il risparmio stimato confrontandolo con le dichiarazioni di Matteo Renzi a Quinta Colonna nella puntata di lunedì 26 settembre.

Prima di iniziare una precisazione: tutti i risparmi sono stati calcolati al lordo dell’imposizione fiscale. Bisogna quindi tenere conto anche di un possibile minor gettito per l’erario, che in alcuni casi raggiunge percentuali non risibili.

INDENNITÀ SENATORI

Cominciamo con il taglio alle indennità dei Senatori: il Presidente del Consiglio promette un risparmio di 42 milioni di euro. Il dato, secondo il bilancio del Senato 2015, è corretto: per la precisione si parla di 42 milioni 205 mila e rotti. Tutto cio è prevsto dall’articolo 9 della riforma costituzionale, il quale garantisce una indennità ai soli Deputati della Camera. Per il momento Renzi è promosso.

RIMBORSI AI SENATORI

Sui rimborsi ai Senatori iniziano i problemi. Il Premier annuncia un taglio di 37 milioni, considerando una loro eliminazione totale. Tuttavia ciò è irrealistico: vista la riduzione del numero dei Senatori (da 315 a 95)  e dell’attività del nuovo Senato i rimborsi si assottiglieranno ma rimarranno. Calcolando dunque il risparmio in proporzione al taglio dei Senatori, si ottiene una cifra intorno ai 24 milioni di euro, distanti dai 37 promessi.

TRASFERIMENTI AI GRUPPI PARLAMENTARI

Altro capitolo: il Premier afferma che dai trasferimenti ai gruppi parlamentari del Senato verranno risparmiati 20 milioni di euro, con un taglio pari al 100 per cento. Renzi è sicuro: “c’è scritto in legge, basta leggere”. Tuttavia, la ministra Boschi l’8 giugno 2016 alla Camera parlava di “riduzione” e non di abolizione totale. Tralasciando la confusione delle dichiarazioni governative, il dato di fatto è che i trasferimenti ai gruppi parlamentari rimarranno in essere, anche se in forma minore: questa voce di spesa, essendo normata dal regolamento del Senato (all’articolo 16) e non dalla Costituzione, non viene toccata dalla riforma. Tenendo conto perciò della riduzione del numero dei Senatori, i risparmi potrebbero aggirarsi attorno ai 14 milioni euro. Ancora numeri distanti da quelli del Governo.

SPESE PER IL PERSONALE

Sulle spese per il personale del Senato il discorso si fa più complicato. Il Presidente parla infatti di un risparmio di 20 milioni, su una spesa totale di 120 milioni di euro. Tuttavia l’esborso si divide tra i salari dei dipendenti a tempo indeterminato (per 100 milioni), che non potranno essere tagliati se non nel lungo periodo, e gli stipendi di personale precario (circa 16 milioni, Renzi li riporta sotto la voce “segreterie istituzionali”). Solo quest’ultima potrà essere erosa nel breve periodo, con un risparmio di circa 12 milioni di euro, calcolato mantenendo i rapporti utilizzati per calcolare la riduzione dei rimborsi ai Senatori e dei trasferimenti ai gruppi. Se prendiamo invece in considerazione un periodo più lungo, le spese si assottiglieranno in modo più deciso: verrà infatti istituito un ruolo unico dei dipendenti del Senato e della Camera e verrà favorita la messa in comune di servizi e attività (articolo 40 comma 3 della riforma), aumentando l’efficienza.

CNEL

Il Consiglio Nazionale Energia Lavoro verrà abolito dal giorno dopo il referendum; è uno dei pochi cambiamenti che entrerebbero da subito a regime, e non soltanto dopo il termine della legislatura. Il bilancio disponibile sul sito dell’ente certifica poco meno di 9 milioni di spese. Ed è esattamente quanto il segretario PD correttamente comunica. Curiosità: Maria Elena Boschi aveva tuttavia parlato alla Camera di un risparmio di 20 milioni, e non di 9. Perché questa discrasia? Probabilmente per via di dati non aggiornati al Ministero per le Riforme. Il costo del CNEL è stato infatti ridotto di circa 10 milioni di euro dalla legge di stabilità 2015, arrivando perciò agli 8,7 milioni odierni. Certo tale scarsa accuratezza (fortunatamente oggi corretta) non può che gettare in ombra gran parte dei dati forniti dal Governo in materia.

PROVINCE

Sul tema province regna l’incertezza. Matteo Renzi promette 350 milioni di taglio ai costi della politica, in realtà già contabilizzati a bilancio grazie alla legge Delrio (n. 56/2014), che ha eliminato gli organi elettivi di questi enti locali. Il Premier tuttavia afferma che questi risparmi verrebbero persi in caso di vittoria del No al referendum: la legge Delrio in più punti rimanda infatti ad una futura riforma del Titolo V e della seconda parte della Costituzione. Il Governo pare quindi alludere al rischio di ricorsi volti a ripristinare il precedente sistema organizzativo in caso di fallimento della riforma. Vari costituzionalisti interpellati direttamente – anche favorevoli al Sì – non credono tuttavia possibile un simile scenario. Da parte sua Roberto Perotti, ex consulente per la spending review,  ha affermato in un’intervista: “I risparmi dall’abolizione delle Province sono esclusi: sono già stati attuati e conteggiati, non si può utilizzarli due volte.” Ma, al netto di tutto ciò, a quanto ammonterebbero le minori spese? Anche su questo i dati non sono certi. Renzi parla di 350 milioni, Boschi di 320, Delrio nel 2014 dichiarava 160 milioni, lavoce.info 113 milioni, la Corte dei Conti dai 100 ai 150 milioni. La parola definitiva la mette lo stesso Ministero per le Riforme, che getta la spugna e scrive alla Commissione Affari Costituzionali della Camera che i risparmi “non sono quantificabili” e che potranno essere quantificati “solo a completa attuazione della […] legge” Delrio.

RIMBORSI GRUPPI CONSIGLI REGIONALI

A Quinta Colonna il segretario PD quantifica in 36 milioni i risparmi derivanti dall’abolizione dei rimborsi ai gruppi nei Consigli regionali. Il taglio sarebbe immediatamente esecutivo, secondo l’articolo 40 comma 2 della riforma costituzionale. Su questo hanno ben lavorato gli amici di OpenPolis, che quantificano i rimborsi ai gruppi regionali in oltre 30 milioni all’anno, sulla base di dati del 2014 (2012 per la Regione Sardegna). Per la precisione il risparmio – spiegano – si aggirerebbe attorno ai 31-32 milioni, non lontani dai 36 di Renzi, se si tiene conto di un certo margine di errore dovuto all’ampia quantità di dati.

STIPENDIO CONSIGLIERI REGIONALI

Ultimo capitolo, quello degli emolumenti percepiti dai Consiglieri regionali. Essi dovrebbe essere adeguati   “nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione”, come recita l’ultimo comma dell’articolo 35 della riforma costituzionale. Il Presidente del Consiglio promette 36 milioni di risparmi da questa voce di spesa. Ma, come ci ricorda il servizio studi della Camera dei Deputati, questo taglio si applicherebbe alle sole regioni a statuto ordinario, in attesa che quelle a statuto speciale e le province autonome aggiornino i rispettivi statuti. Inoltre – dato ancora più rilevante – l’applicazione pratica non sarà immediata ma rimandata ad una successiva legge ordinaria, approvata con metodo bicamerale (come regolato dal nuovo articolo 70).

Tuttavia la realtà è che il risparmio sarà effettivo solo se il termine “emolumenti” verrà interpretato come comprensivo di indennità di carica, indennità di funzione e pure rimborsi spese. I dati, anche in questo caso, sono spesso disorganici e confusi. Ci affidiamo perciò a un’infografica del Secolo XIX pubblicata a gennaio, una delle poche fonti più o meno attendibili e complete reperibili in rete. Dopo qualche calcolo – considerando il termine “emolumenti” omnicomprensivo – si ottiene che la minore spesa potrebbe essere quantificata in circa 20 milioni; tenendo conto di un certo margine di errore, l’ordine di grandezza appare comunque distante dai numeri forniti da Matteo Renzi. Invece, nel caso in cui fossero tagliate le sole indennità e lasciati invariati i rimborsi spese, i risparmi sarebbe davvero esigui, se non in alcuni casi addirittura negativi con ulteriori possibili esborsi a carico dei contribuenti.

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Siamo dunque al bilancio finale. Escludendo i capitoli relativi alle province e agli stipendi dei Consiglieri regionali, troppo incerti per una comparazione, i risparmi per il Governo ammontano a 164 milioni; quelli calcolati nel corso dell’articolo 133. Una differenza di 31 milioni, il 19 per cento.

Questi, dunque, i fatti. Il giudizio, come sempre, ai lettori.

Articolo scritto assieme a Francesco Armillei

La riforma costituzionale è davvero così fondamentale?

Nel 2016, probabilmente verso settembre-ottobre, saremo chiamati ad esprimerci attraverso referendum confermativo sulla riforma costituzionale voluta dalla maggioranza parlamentare e dal Governo Renzi. Ma sappiamo davvero di cosa si sta parlando? Conosciamo il complicato iter che probabilmente porterà entro questa primavera all’approvazione del disegno di legge? Sappiamo cosa contiene la proposta di legge di cui si sta discutendo? Possiamo immaginare gli effetti (positivi o negativi) che potrebbe portare?

Non mi lancerò in un post di risposta ad ognuno di questi interrogativi, temo che lo spazio riservato dai server di WordPress al mio blog si esaurirebbe prima di aver terminato. Ciò su cui mi voglio soffermare è un solo aspetto della complicata questione: l’importanza di riformare ed innovare i meccanismi istituzionali della nostra Repubblica.

Se già conoscete l’attuale meccanismo di approvazione delle leggi italiane ed avete seguito – anche sommariamente – il dibattito riguardo la riforma costituzionale in discussione in Parlamento saltate a piè pari i prossimi tre paragrafi. In questi descrivo l’inefficiente meccanismo del bicameralismo perfetto e le possibili soluzioni trovate dalla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi (tra l’altro qui il testo e tutti gli atti dell’ultima approvazione al Senato del 13 ottobre scorso, l’11 gennaio si replica alla Camera).


Come tutti (spero) sappiamo la nostra è una repubblica democratica parlamentare, dal 1946. Essa basa cioè il proprio architrave politico sul Parlamento, (e non sul Governo, ed è per questo motivo che il popolo italiano elegge i parlamentari e non il Presidente del Consiglio) diviso in due rami che godono di uguali poteri: Camera dei Deputati e Senato della Repubblica. I disegni di legge ed i decreti legge (differenza) possono essere presentati in ognuno dei due rami del Parlamento e non sono da considerarsi approvati in via definitiva prima che entrambe le camere non abbiano deliberato lo stesso testo. Faccio un esempio concreto: la Camera approva in prima lettura un disegno di legge, il Senato lo riceve, lo vota (prima in Commissione, poi in Aula) e ne modifica anche un solo articolo; a questo punto il disegno di legge -approvato anche dal Senato, ma in una versione modificata, seppur in modo minimale- torna alla Camera ove dovrà essere approvato senza alcun cambiamento rispetto al testo uscito dal Senato. Altrimenti il ping pong ricomincerà, potenzialmente anche all’infinito.

Ecco, provate ora ad immaginare questo meccanismo moltiplicato per tutte le 186 leggi approvate in via definitiva durante legislatura in corso (dal 7/5/2013 ad oggi). Capite bene quindi quanto possa essere ingolfato il meccanismo politico-istituzionale italiano: una legge proposta da un parlamentare o da un gruppo di parlamentari in media per essere approvata impiega 375 giorni, una governativa 151 giorni (dati). Certo in questi ritardi importante è anche la volontà politica: citando OpenPolissono bastati appena 13 giorni per la Ratifica del trattato di risoluzione unica (più veloce), mentre ne sono serviti 871 per la legge sull’agricoltura sociale (più lenta).

In questo contesto viene proposta la riforma della II parte della Costituzione, che per semplificare l’iter legislativo distingue le funzioni delle due Camere -abolendo così il bicameralismo perfetto- affidando alla Camera il compito di discutere ed approvare tutte le leggi, tra cui il bilancio dello Stato, e conferire la fiducia al Governo, mentre il Senato diventa “Senato delle Autonomie” e svolge compiti di rammendo tra autonomie locali e Stato e di controllo su alcuni tipi di leggi approvate dalla Camera. Per ogni altra informazione trovate questo dettagliatissimo dossier del sito della Camera.


Riprendiamo ora il discorso per tutti, anche per i più esperti.

Una delle critiche che più abbiamo ascoltato in questi mesi nei confronti della proposta di riforma costituzionale della maggioranza è la presunta irrilevanza delle modifiche proposte dal Governo per la vita di tutti i giorni. Di fronte a tutte le problematiche che l’Italia sta vivendo -soprattutto economiche- i detrattori indicano le riforme costituzionali come un’enorme perdita di tempo ed energie. Niente di più sbagliato.

Molti tra i critici del Governo sono incappati in questa polemica (piuttosto populista).

L’imprenditore Diego Della Valle, rilanciato dall’economista liberale di Italia Unica Riccardo Puglisi, è uno di questi.

Non risparmia critiche nemmeno il “Nobel all’economia mancatoRenato Brunetta, capogruppo di FI alla Camera.

E non poteva mancare la Senatrice M5S Taverna (dal minuto 1:16), con uno dei suoi tanti discorsi urlati che l’hanno ormai fatta celebre. La Senatrice prima di essere eletta faceva la segretaria in un ambulatorio privato, per dire.

Ma cosa hanno queste tesi di sbagliato? Per evidenziarlo riporterò alcune teorie di sviluppo economico e qualche esempio storico che ritengo calzanti.

Lo sviluppo economico preindustriale è costellato di innovazioni istituzionali che hanno segnato i destini dei vari paesi. La teoria più importante per quanto riguarda le innovazioni istituzionali è di Douglas North1, che definisce “tutti i balzi in avanti della storia economica come il risultato azzeccato di bilanciamenti istituzionali2. I paesi dell’epoca preindustriale iniziarono -ritiene North- a competere anche sul sistema di regole che presiedevano al modo in cui gli individui e gruppi cooperano e competono per raggiungere i loro obiettivi: cioè sulle istituzioni. Queste diventano oggetto di competizione e -trovato un modello istituzionale efficiente- di imitazione. E perché le istituzioni si sono modificate nei secoli? Perché quelle realizzate in precedenza hanno rivelato i loro aspetti negativi e perché l’ambiente economico prevalente si è modificato. In questo modo le nuove istituzioni risponderanno meglio alle esigenze dei tempi e faranno risparmiare sui cosiddetti “costi di transizione”.

Questa è certamente una teoria che guarda molto, forse troppo, ai risvolti economici e non dà spazio agli elementi culturali e filosofici che stanno alla base delle istituzioni. Chi conosce il meccanismo del bicameralismo perfetto saprà infatti anche il motivo per cui fu adottato: in Italia dopo il Ventennio Fascista non si voleva più rischiare l’avvento di una dittatura e perciò furono introdotti numerosi cheks & balances nei confronti dell’esecutivo, ed uno di questi è proprio il bicameralismo perfetto. E questa non è certamente una motivazione di tipo economico.

In questo discorso si inserisce bene l’analisi sviluppata da Paul David3, che introduce il principio della path dependence e illustra come “la spiegazione di molte configurazioni […] istituzionali sia rinvenibile solo in un determinato percorso storico e non in leggi economiche razionali di validità universale4, correggendo quindi in parte il determinismo economico di North.

Non sono però solamente le teorie economiche a confutare le critiche degli oppositori alla riforma costituzionale. Esistono anche chiari esempi storici, uno fra tutti quello dell’Inghilterra. Sarebbe riuscito questo paese a divenire la potenza egemone globale che è stata dal XVII secolo fino alla prima metà del ‘900, ad essere la culla della Rivoluzione Industriale e a costruire il più grande impero coloniale della Storia, senza poter godere del miglior sistema istituzionale esistente? Molto probabilmente no. L’Inghilterra è il primo paese a dotarsi già in epoca preindustriale di ciò che più assomigliava ad uno stato di diritto: prima con la Magna Charta Libertatum nel 1215, poi con l’Habeas Corpus Act e con il Bill of Rights. È il primo paese a dotarsi di un Parlamento forte che approva il bilancio statale secondo il principio del “no taxation without representation”. In definitiva è il primo paese ad adottare l’innovazione istituzionale per eccellenza: lo Stato moderno. Se l’Inghilterra ha potuto approvare leggi moderne ed intelligenti in campo economico, come i Calicò Acts e i Navigation Acts, le Enclosure Bill (1621), l’istituzione della Banca d’Inghilterra (1694), la nascita del brevetto, ecc, lo deve soprattutto al suo sistema istituzionale stabile, legittimato e rappresentativo degli interessi economici prevalenti, requisito fondamentale per uno sviluppo economico a lungo termine.

Perciò, come abbiamo visto, le istituzioni e la loro innovazione secondo le necessità delle diverse epoche storiche possono essere realmente un elemento determinante per lo sviluppo economico di uno Stato. Certamente gli effetti dei cambiamenti e delle innovazioni istituzionali, come ciò che stiamo vivendo oggi in Italia, non si vedranno che nel giro di qualche anno. Ma è innegabile – lo scriveva pure Enrico Berlinguer nel 1981 – che il sistema istituzionale italiano abbia bisogno di essere riformato, e che ne abbia bisogno oggi per affrontare al meglio le sfide del lavoro e dell’economia. Le riforme costituzionali -in genere, non entro nel merito di quella approvata dal Senato l’ottobre scorso- sono quindi una vera e propria priorità, sia per le questioni economiche messe in risalto nei paragrafi precedenti, sia per dare ossigeno e restituire credibilità ad un sistema istituzionale che si sta sempre più riscoprendo dai piedi d’argilla.

P.S.: Francesco Armillei ha pubblicato il suo terzo post sul suo nuovo blog proprio a proposito della riforma costituzionale, leggetevelo!


1 – D. North, Structure and change in economic history, New York, Norton, 1981; D. North, Transaction costs in economic history, in “Journal of European Economic History”, 1985.

2 – V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, p. 38, il Mulino, 2014.

3 – P.A. Davi, Clio and the economic of QWERTY, in “American Economic Review, 1985.

4 – V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, p. 38, il Mulino, 2014.